La poesia di Paola Cavallari arriva a noi come una presenza clandestina, una scrittura segreta, svelata con pudore, con una certa ritrosia tra tanta produzione saggistica legata alla militanza femminista, alla teologia impegnata a dare voce alle donne, a denunciare gli abusi e le ingiustizie del patriarcato sacerdotale.
Una scrittura chirurgica e potente nella dissertazione filosofica e politica, che non fa sconti, che non cerca di compiacere i guardiani dell’impero ecclesiastico maschilista, che esamina con esattezza tagliente tuti i nodi irrisolti delle religioni quando sono violente aggressioni alla dignità delle donne. Ma nella stanza della versificazione, il tono si abbassa e diventa un compagno struggente.
Già nella bella e appassionata prefazione di Angelo Casati, poeta amico e sacerdote, possiamo leggere tutta la densità formale e contenutistica di questo diario intimo e travolgente, dove l’autrice raccoglie la sua memoria di donna, nel suo cammino di fede e di meditazione spirituale. Casati parla di viaggio e di incantamento, a partire da un dipinto particolare.
La Madonna del Parto di Piero della Francesca è un quadro epifanico, di forte simbologia. Maria posa la sua mano sul ventre gravido, l’altra mano è appoggiata sul fianco, lo sguardo è fiero e distante, come perso in un altrove irraggiungibile, e ai lati sono dipinti due angeli dalle forme effemminate che aprono la tenda per mostrare la donna prima che diventi madre. Scegliere di partire da questa opera, che il pittore ha dedicato alla madre dopo la sua morte, scegliere questa immagine come fonte di meditazione, ha un peso fondamentale. Ma bisogna uscire fuori dal copione tradizionale della retorica della maternità cristiano/cattolica per capire fino in fondo la portata rivoluzionaria di questa scelta.
Il dialogo interno tra tante parti di sé, l’essere madre e l’essere figlia, l’essere donna che fa figli e l’essere donna che non fa figli, l’essere creatura che ama e l’essere creatura che vuole essere amata, crea il gioco drammatico dove l’autrice si muove, in uno spostamento continuo e spiazzante.
…/Creatura da te creata/ ero rinata al mondo/ dalle tue mani amorose./ Ridevi, godevo./ Godevi/ Ridevo/…
L’essere madre, essere fertile, essere sterile, essere vita e dare la vita, nodo centrale della formazione femminile, nodo che qui viene messo in discussione dall’interno, cercando di smontare il matricentrismo tradizionale per dar luogo alla capacità di partorire se stesse, in quanto creature senzienti e con-senzienti.
Il mistero della maternità verginale che inquieta e affascina ha mutilato per secoli la consapevolezza creativa della donna, ha spostato il baricentro fondativo verso “la funzione”, cancellando la consapevolezza di essere degna di amore, a prescindere dal destino biologico. Come se essere donna voglia dire essenzialmente trovare il proprio valore esistenziale dentro questo tracciato: essere dentro questa funzione contenitiva, contenere e dare la vita prima di tutto. Non a caso uno dei saggi più potenti e significativi di Paola Cavallari si intitola Non sono la costola di nessuno.
La sua ricerca di equilibrio tra fede e femminismo è stata da sempre un potente motore speculativo e filosofico, interrogando incessantemente i testi biblici per fare luce sulla cancellazione costante delle donne come soggetto protagonista del cammino spirituale. Centro basilare della militanza femminista di Cavallari è proprio l’impegno costante di dare voce alle donne che sanno e possono interpretare le scritture, indicando la via del sacro, quel sacro femminile che nelle società più arcaiche era costantemente presente, ruolo attivo poi dimenticato di proposito dalla gerarchia ecclesiastica maschile, che ha voluto creare una supremazia di un genere sull’altro, fondando l’ingiustizia più atroce, ai danni di metà del genere umano.
È da questa posizione che bisogna leggere anche la poesia di Cavallari. Teologa, attivista femminista e soprattutto visionaria radicale, perché bisogna avere uno sguardo particolare per realizzare associazioni come l’Osservatorio interreligioso contro la violenza sulle donne. Bisogna “vedere” la parola delle donne come un pungolo che muove l’anima e il cuore verso il cambiamento e la giustizia. Anche la poesia è questo sguardo sulle cose del mondo, esprime quella “visione” interiore dove l’esterno, ciò che esiste fuori di noi, l’orizzonte esteso tra terra e cielo non coincide con ciò che è dentro di noi.
La fede è esperienza incarnata di questa visione di appartenenza, nella ricerca di un punto di coincidenza tra il trascendente e il non trascendente. Ogni azione si incarna nell’attimo presente e diventa passato prossimo nel gesto di ascolto e di accoglienza, mentre la parola scritta fa parte della contemplazione, creando una sospensione tra noi e le cose, tra ciò che è sensibile, percepibile, e ciò che rimane un mistero. E l’amore resta il primo dei misteri. È di questo mistero che diventa dono atteso e poi segnatura della resa all’altro che parla questo poema, scrittura tragica e liberante.
Tardi ti ho amato/Vita,/molto tardi/ ti ho trovata,/quando è giunto chi/ mi ha suggerito/la benevolenza della resa./ Grazie alla sua guida/ l’ho fatta re-spirare/ crescere/ aprirsi alla dilatazione astrale/…stare
La scrittura oscilla sulla pagina in un movimento ondulatorio, in un continuo domandarsi e rispondere tra l’io lirico e i personaggi angelici in quadri viventi, che dipingono senza poterla contenere quell’inquietudine generativa, matrice costante di un disagio e di una ricerca che sfianca e che preme. Un gioco di spazi e di rimandi che destabilizza e ricorda il viaggio interiore dell’anima che si interroga, che si trova e poi si smarrisce, che dialoga con l’invisibile e che si affida in un’immaginaria conversazione mai chiusa da risposte certe ma aperta e plasmabile come quel processo fragilissimo che porta la creatura a fidarsi e affidarsi all’amore. Essere amata e amare, uscire dai confini dell’io prigioniero e cercare l’altro, l’Altro, ripararsi nel rifugio dell’abbraccio e così riparare quella ferita di chi si sente gettato nel mondo senza una motivazione.
L’immagine del dipinto della Madonna del Parto di Piero della Francesca è il primo degli indizi suggeriti, è l’architrave del poema perché il dipinto viene richiamato in ogni capitolo in una modalità stratificata che miscela il vissuto autobiografico, la sapienza teologica, il cammino filosofico/ esistenziale. Ma la poesia è questa scommessa che rovescia i piani, che svela le nudità trasparenti del nostro penare e vela in un codice simbolico i puntelli speculativi che ci reggono in piedi. È questo conversare in versi che crea un con-sentire di profonda e irraggiungibile decifrazione oggettiva.
Bisogna andare piano verso dopo verso, ascoltare il battito creaturale e il respiro delle cose per toccare il territorio frastagliato che l’autrice sta esplorando con coraggio. Essere madre di se stessa, partorirsi dalla ferita, svelare l’amore per colui che le ha regalato una diversa percezione di stare al mondo.
Non è questo poi l’amore? Dichiararsi arresi all’altro, aprire le braccia mostrando lo sterno senza la paura di essere colpiti, avere fiducia che quell’abbandono non sarà tradito dal silenzio e dall’indifferenza.
Leggendo il poema, si ritorna spesso a guardare il quadro, quasi a voler interrogare quegli angeli, presenza spirituale del logorio della ricerca esistenziale. Le due sentinelle custodiscono il mistero della nascita e della morte, e nel dialogo sono gli interlocutori che spingono non verso la catechesi della sopportazione e dell’obbedienza allo stereotipo della maternità del corpo femminile come unica realizzazione della donna ma vanno oltre, indicando nell’amore dell’amante la nascita della conversione, la potenza dell’amore per ogni creatura in una visione allargata e inclusiva la risposta non ideologica non monolitica, non unidirezionale, al destino della donna.
In questo caso il dolore per la sterilità si trasforma in gioia della vita in adesione totalizzante verso una scelta di amore che si incarna nella cura e nello sguardo benevolo verso l’altro. È un’orizzontalità che lega e libera e sottolinea la poetica della relazione come fondativa della segnatura spirituale più alta.
L’aspetto della piramide familiare formata dal padre, dalla madre e dal figlio, schema sostenuto dal patriarcato maschilista e misogino della narrazione tradizionale cattolica, viene sostituito dalla pratica evangelica dell’amore, che apre il cuore alle creature tutte e non si chiude in asfittiche prigioni.
Ecco allora conseguenti e coerenti le citazioni inserite nel testo di filosofe e poetesse come Maria Zambrano ed Etty Hillesum. La poesia è qui una forma di meditazione e di contemplazione del reale che apre al mondo, un viaggio in versi tra le luci e le ombre del nostro cammino.