Decidere di vedere Sulla mia pelle, il film del regista Alessio Cremonini sugli ultimi giorni di Stefano Cucchi – presentato come pellicola d’apertura della sezione Orizzonti alla 75esima mostra del Cinema di Venezia e accolto con sette minuti di applausi dopo la prima proiezione –, ma soprattutto decidere di vederlo fino alla conclusione che tutti conosciamo, preannunciata sin dalla prima scena, non è una scelta politica ma una vera e propria scelta civica.
Tutti dovremmo farne visione e promuoverne la proiezione pubblica: nelle scuole, negli oratori, nelle associazioni, nei collettivi studenteschi, nei cinema che rifuggono la politica del mordi e fuggi tipici del sistema multisala e che, invece, aprono le proprie porte al dibattito e al confronto come quando davvero questi erano un punto di riferimento e di riflessione per le comunità. I tempi cambiano, così come le modalità di fruire dei film in uscita: caratteristico l’esperimento del colosso Netflix, produttore con la Lucky Red, che ha testato l’uscita del lungometraggio sia nelle sale sia in streaming provocando non poche polemiche da parte delle associazioni di settore, soprattutto per la scelta della rassegna veneziana di ammettere in gara due film che usciranno in contemporanea al cinema e sulla piattaforma, tanto da decidere di boicottarne la proiezione, destinata soltanto a una cinquantina di sale in tutta Italia. Polemiche inutili, dato che il film vincitore del Leone d’Oro si è rivelato proprio Roma di Alfonso Cuarón, che con Sulla mia pelle prevederà la doppia distribuzione.
Nel caso del film di Cremonini, inoltre, questo duplice binario ha costituito un banco di prova per l’amore che gli italiani hanno per le sale cinematografiche, visto che a meno di ventiquattro ore dall’uscita la pellicola si era già classificata al sesto posto al Box Office. Ma questa è solo una controversia marginale rispetto a tutte quelle che hanno accompagnato il lungometraggio, anche se mi piacerebbe capire quanti, tra sindacati di polizia e politici che dal loro punto di vista orgogliosamente manifestano il loro dissenso a riguardo e la loro volontà di non vederlo, abbiano davvero capito quali sono i toni reali di questo lavoro. Il film, interpretato magistralmente da Alessandro Borghi nei panni di Stefano – che per questa parte ha dovuto affrontare anche un drastico dimagrimento di diciotto chili –, da Jasmine Trinca nel ruolo della sorella Ilaria, portavoce e promotrice della battaglia legale e sociale dalla morte del fratello (il 22 ottobre 2009) fino a oggi, e da Max Tortora che interpreta il padre del ragazzo, il geometra Giovanni Cucchi, è un pugno nello stomaco, sferrato anche e soprattutto dall’imparzialità con cui vengono narrati i fatti.
Stefano non appare come un santo: non può esserlo e non lo è chi, nonostante il passato da tossicodipendente, con relativo percorso in comunità e al SERT, continua a fare uso e a rivendere hashish e cocaina, seppur in piccole dosi, seppur fuori dai grandi giri dello spaccio in mano alla criminalità organizzata. Non è un santo anche se sta cercando di aggrapparsi alla fede, al pugilato, al lavoro, andando giornalmente al cantiere per sfruttare il suo diploma di geometra. Non è quindi un santo, ma è dannatamente simile a qualsiasi altro ragazzo di 31 anni che ha avuto un percorso di vita non proprio rettilineo. E ce ne sono tanti, molti di più di quanto si possa pensare. Per questo quel Sulla mia pelle potrebbe essere benissimo sulla nostra pelle: potremmo essere anche noi Stefano, preda di una qualsiasi spirale di dipendenza difficile da estirpare, come il pregiudizio che da questa viene. Nessuno è immune dal vivere quello che ha potuto vivere lui, bollato come tossico e spacciatore ancor prima di essere perquisito.
Il film, dopo la prima scena, al Centro di Medicina Protetta Sandro Pertini in cui due infermieri, la mattina del 22 ottobre 2009, si accorgono che Stefano ridotto ormai a uno scheletro di 37 chili non respira più, ripercorre passo dopo passo la vicenda a partire dal 15 ottobre, data del fermo, al “presunto” pestaggio, al processo, all’arresto e al conseguente ricovero, prima presso il centro clinico del carcere di Regina Coeli e poi al Pertini. I fotogrammi sono freddi, come la luce dei neon delle caserme in cui Stefano viene rimbalzato: la caserma Appia, la caserma Casilina dove tra le 2:15 e le 3:10 è avvenuto il pestaggio – di cui non vi è una scena chiara anche perché c’è ancora un processo in corso (della vicenda giudiziaria abbiamo parlato anche noi qui) –, poi ancora la caserma Appia e, infine, quella di Tor Sapienza, da cui andrà in tribunale già visibilmente claudicante, con il viso tumefatto e il respiro affannoso.
Sono caduto dalle scale diventa la giustificazione data a chi, seppur superficialmente, sembra interessarsi ai lividi sul volto del ragazzo: la scusa più vecchia del mondo, usata perché la più banale a cui tutti, in questo caso, sembrano credere. Nella settimana tra il 15 e il 22 ottobre Stefano, seppur in isolamento per la maggior parte del tempo, passa per le mani di 140 persone, tra cui non ce n’è una che prenda provvedimenti seri sulle sue condizioni di salute. Spaventato e stanco, il giovane cercherà di rivendicare i suoi diritti nell’unico modo che gli sarà possibile: Scrivete su questa cartella clinica che rifiuto l’ecografia e la flebo perché voglio vedere il mio avvocato, ma il suo avvocato non arriverà mai, così come il permesso del giudice per incontrare i suoi familiari, che lo potranno abbracciare solo in obitorio e solo dopo insistenze.
È davvero impossibile non lasciarsi prendere dalla narrazione, trattenere le lacrime, non indignarsi di fronte a questo film che ha saputo raccontare una vicenda tanto triste della giustizia italiana, ancora irrisolta, in un modo così pulito, rigoroso, super partes, senza scene davvero violente. Per questo dovremmo vederlo tutti: per renderci conto che per almeno cento minuti siamo anche noi Stefano, distesi sulla panca di una cella, illuminati da un debole fascio di luce che dà un taglio quasi caravaggesco a una scena di per sé straziante. Soli, con il nostro dolore di essere diversi, di essere sì colpevoli ma, come cantava De André, pur sempre vittime di questo mondo.