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Live action: cosa c’è che non va con la Disney?

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
8 Novembre 2023
in Cinema
Tempo di lettura: 6 minuti
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Da La sirenetta a Mulan, da Il re leone a Bambi, a Biancaneve e i sette individui che non sono i sette nani. Gli adattamenti in live action dei classici Disney, seppur prolifici, stanno vivendo un momento di profonda contraddizione. Polemiche e indignazione specialmente tra i cosiddetti millennials, quelli che hanno consumato tonnellate di VHS o DVD, forse i veri destinatari di tali prodotti così iconici e così intoccabili. Cosa c’è quindi che non va in questi progetti artistici? Perché, pur essendo un flop dopo l’altro, continuano a infestare i cinema? Dopotutto, molti di questi hanno alle spalle registi e squadre di produzione non indifferenti. Per intenderci, sembra assurdo pensare che Robert Zemeckis, regista di quell’abominio di Pinocchio (2022), sia lo stesso che ha diretto capolavori come Ritorno al futuro (1985), Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988) o Forrest Gump (1994).

Per analizzare correttamente la questione è necessario partire dal motivo di base per cui l’idea di far diventare “in carne e ossa” i nostri amatissimi personaggi animati anni fa da Walt Disney è diventata un vero trend: soldi (avevate dubbi?). Questi film generano ottimi incassi, titillando la nostalgia dell’adulto e la curiosità del bambino. E cosa c’è di meglio di una proficua polemica social che crea polarizzazione e spinge la gente ad andare al cinema? Sì, perché ormai la parola che mi viene in mente è solo una: strategia. Ma andiamo per gradi.

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La ragione per cui i live action perderanno sempre e comunque è l’ovvio e inevitabile paragone con l’opera originale, senza alcuna possibilità di reggerlo. Parliamo di lungometraggi che hanno forgiato la storia del cinema, perfetti così come sono, e l’idea di rimettere in scena qualcosa di tanto magico sarà sempre percepita come rottura di quella magia. Un errore comune di cui gli sceneggiatori continuano a non accorgersi è la volontà di omettere dettagli necessari e aggiungerne di superflui, con la motivazione di rinfrescare la sceneggiatura. Questo però non sempre vuol dire fare meglio. Le storie, i personaggi, erano già stati accuratamente studiati a loro tempo e il rischio di snaturare tale caratterizzazione è dietro l’angolo.

Se si parla di live action Disney di certo non può mancare la questione animali e CGI. Ebbene sì, altro grande errore – e qui perseverare è diabolico – è credere che replicare realisticamente animali pensati per essere animati sia una mossa vincente. Se n’era parlato tanto all’uscita de Il re leone (2019), dove l’idea di ricreare il film quasi fosse un documentario suscitò non poche polemiche. Ed è ovvio. Umanizzare gli animali è una caratteristica tipica della Disney, permettendo allo spettatore di entrare in empatia con loro. Renderli realisticamente non solo non permette a chi guarda di immedesimarsi ma produce un effetto straniante e disturbante anche nel canto e nel ballo (e le coreografie Disney sono motivo di grande vanto). Per non parlare del piano tecnico, dove vengono assurdamente mantenute le stesse inquadrature dell’originale, con primissimi piani facciali del tutto inutili se questi non trasmettono alcuna emozione. Ma, quindi, non esiste alternativa? Sbagliato. Lo ha dimostrato un semplice fan e web artist Ellejart, donando ai personaggi del film un look più cartoonesco, per un risultato decisamente più espressivo e convincente. Della serie bastava poco.

A complicare le cose, inoltre, sono anche loro: gli antagonisti. Personaggi orribili nei classici Disney, oggi un po’ meno, spesso descritti così a causa di traumi del passato o un’infanzia difficile. Ce lo ricordiamo, ad esempio, con Malefica, d’un tratto d’animo nobile, o ancor di più con Crudelia, dove una donna spietata, cinica, disposta a scuoiare cuccioli di cane per farsi delle pellicce diventa semplicemente un po’ cattivella (decisamente migliore l’adattamento de La carica dei 101 del 1996, con un’ottima Glenn Close e una trama reinterpretata di modo da essere fedele nel necessario). In questo modo, non solo si snatura un personaggio divinamente caratterizzato in precedenza ma si perde anche il senso del villain, fondamentale proprio per personificare e rendere concreto il concetto di male al bambino, il quale – che vi piaccia o no – ne ha bisogno.

Ma a cosa ci porta tutta questa ossessione di adeguarsi all’estrema sensibilità dei nostri giorni? Eccolo, il nostro atteso polically correct. Un termine abusato, travisato, forse un pretesto perché dire strategia di marketing fa poco umile. C’è da dire che oramai rasenta il ridicolo la serie di accorgimenti scelti per rendere le pellicole più adatte ai tempi odierni. A cominciare dall’ultima diatriba, quella su Biancaneve, in cui i canonici sette nani cederanno il posto a sette dubbie creature magiche, per evitare problemi etici dovuti alla macchiettizzazione delle persone con acondroplasia (specie dopo l’intervista all’attore Peter Dinklage). Un tema delicato che, forse, non comprenderò mai del tutto. Però mi sento di dire che una possibile soluzione poteva essere quella di caratterizzare diversamente – e non in chiave macchiettistica – i personaggi e dare la possibilità a sette attori meritevoli di ottenere una parte in un mondo come quello di Hollywood ancora chiuso da un punto di vista di disabilità. Non tutti sono Tyrion Lannister.

Politicamente corretto anche per quanto riguarda le battaglie femministe e quale modo migliore per sposare la causa se non quello di creare personaggi fastidiosi e insensati spacciati come forti? Non serviva dare poteri magici a Mulan poiché la caratteristica fondamentale dell’eroina originale era proprio dimostrare di essere in grado, sia vestita da donna che da uomo, di compiere tali gesta, grazie all’impegno e al sacrificio. E che dire di Peter pan e Wendy che a questo punto mi pare strano non abbiano chiamato Wendy e un po’ anche Peter Pan. Una storia riprodotta senza voglia, dove Wendy si salva da sola, sa tutto, è in gamba e non ha bisogno di niente e nessuno, in perfetto stile Mary Sue (termine usato di solito per descrivere un personaggio idealizzato, perfetto e privo di difetti, dunque non volutamente odioso). Mary Sue anche per Ariel 2022, che salva il principe per ben due volte quando la Disney dell’epoca era stata molto equa concedendo a Eric almeno la possibilità di tenere il timone (sapete com’è, è un marinaio!).

Uno tsunami di sensibilizzazione ovunque, nelle battute, nei testi delle canzoni e, la cosa più avvilente, il non accorgersi di cosa è considerato stereotipo e cosa va contestualizzato con la trama e il personaggio. Facciamo un esempio. Le topine di Cenerentola che impediscono ai topini di cucire dicendo che è lavoro da donne? Stereotipo, è accettabile modificare. Mulan che viene plagiata per essere una buona sposa obbediente? Stereotipo contestualizzato visto che parliamo di un tempo e un luogo in cui la donna era considerata inferiore e adatta solo al ruolo di moglie.

E per stare al passo coi tempi che cosa fanno? Mulan con i poteri e la Sirenetta nera, ovviamente, che con un tocco di bacchetta al suono di Bibbidi bobbidi bu tutto il razzismo svanirà. A proposito del black washing, il trend del momento, sarebbe utile spiegare alla Disney che una sirenetta nera non è un passo avanti nella lotta al razzismo. Nemmeno un po’. Non è trasformando le etnie di personaggi iconici che faranno sentire rappresentate le persone. Ma è creando nuovi, carismatici, vincenti personaggi iconici. Perché, mi dispiace, ma quando si parlerà di Ariel a tutti verrà in mente fino alla fine dei secoli una ragazza pallida con i capelli rossi. La Sirenetta non è l’adattamento della fiaba di Andersen bensì quello del classico Disney, dove Ariel ha prodotto un immaginario consolidato da decenni. Sono gli stessi rappresentanti della comunità afroamericana a dirsi in realtà indignati: Quando Disney ha fatto la scelta di mettere la sirenetta nera – ha detto in un video il comico Nathan Kiboba – lo sapeva che questa cosa avrebbe fatto stupore. Stupore vuol dire creare interesse e interesse vuol dire pubblicità e pubblicità vuol dire fare una valanga di soldi. Per non parlare della componente fondamentale della nostalgia, motivo per cui, se avessero scelto un’attrice bionda, sarebbe stato lo stesso.

Che la Disney voglia dare nuova linfa vitale ai suoi classici, anche per i più giovani, è pure apprezzabile. Ma basta con gli stravolgimenti, i compitini (fatti male), le inesattezze. Ricordate che certi personaggi sono passati alla storia per un motivo e che, per quanto un live action non possa in alcun modo fare di meglio, almeno potrebbe risultare godibile per la vista. Peccato per il cuore.

Prec.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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