Questo libro nasce dalla comune partecipazione delle autrici alla rubrica curata da Silvia Neonato, Cara Prof, sulla rivista Leggendaria fondata e diretta da Annamaria Crispino. Avevo vent’anni quando ho letto, per la prima volta, il saggio di Elena Gianini Belotti Dalla parte delle bambine e la sua lettura ha cambiato profondamente la mia riflessione sull’infanzia delle donne e sulla loro educazione, sul senso di una pedagogia femminista che doveva assolutamente partire dalla decostruzione degli stereotipi patriarcali che costringevano sin da piccole le bambine e le ragazzine a fare i conti con la trasmissibilità di un senso di inferiorità e di subordinazione, rinforzato negli ambienti familiari e scolastici. Un libro che è stato consumato nel gruppo di autocoscienza femminile, passato di mano in mano, di stanza in stanza, letto e sottolineato.
Quando ho saputo che Roberta Ortolano e Samanta Picciaiola ripercorrono nel saggio Sono stata anch’io bambina (tab edizioni, 2023) le riflessioni che Elena Gianini Belotti ci ha lasciato in eredità, mi è sembrata un’operazione politica e letteraria necessaria, oggi più di prima. In questo brillante diario di pensiero, le autrici partono dal proprio vissuto, esprimendo con un linguaggio diretto il loro preciso posizionamento politico: essere insegnanti transfemministe e intersezionali.
Ho tra le mani Dalla parte delle bambine in un’estate molto particolare. Mentre scrivo trascorro qualche giorno a mare con mia madre. Lei è nata nel 1960. Quando è uscito questo libro nel 1973 aveva tredici anni: me la immagino come una giovane adolescente indomita, ribelle, con un grande impeto, mai perso, verso la libertà. Una vecchia foto ingiallita la ritrae qualche anno prima del ‘73 in un cortile, con un classico vestitino dal colletto largo e uno sguardo di sfida, un corpo che vorrebbe essere già altrove, impaziente di conquistare l’unica età che le potesse permettere finalmente l’illusione di una scelta. Io ho appena quarant’anni. Tra me e mia madre c’è una distanza di poco più di venti anni. Anche io sono stata un’adolescente indomita, ma in un modo completamente diverso.
Già questo incipit di Roberta Ortolani rende chiara la scelta di uno stile diretto, chiaro e personale. Un necessario confronto transgenerazionale da madre a figlia, da figlia a madre, attraversando in prima persona le strettoie di un’educazione tradizionale subita dalle donne e nel loro percorso identitario politico, culturale e psicocorporeo. Vengono elaborate tante esperienze diverse e la possibilità di individuare diversi livelli di trasformazione, che sono alla base della ricchezza legittima delle differenze.
La scuola è fatta di corpi e di saperi che si incontrano in uno spazio e in un tempo. Le autrici dichiarano il pensiero di bell books come nutrimento culturale e politico del loro lavoro. Non siamo mai neutrali, affermano. Bisogna partire con lucidità da questa consapevolezza per conversare con le persone in formazione, quali sono i bambini e le bambine.
La riflessione pedagogica femminista in questo periodo è ancora più delicata. La dimensione online, sospesa tra narcisismo massmediatico e derive tecnocratiche, seduce e incanta, immergendo tutti e tutte, grandi e piccole, in un acquario virtuale di grande potenza educativa. La pressione economica e sociale spinge al binarismo di genere e a una chiara ruolizzazione tradizionale. La pedagogia transfemminista ha lo scopo di superare condizionamenti di genere e dei generi, stabilendo un dialogo tra i soggetti della formazione, agendo un’abilità di relazione con il sé profondo.
Siamo di fronte a un processo di adultizzazione dell’infanzia e di omologazione conformista e consumistica al mercato del postcapitalismo. Il patriarcato arcaico nella sua versione capitalistica appiattisce il gusto delle nuove generazioni verso forme date e comuni, spingendo nella direzione di un percorso di addomesticamento ormai consolidato. L’antidoto, scrivono Ortolani e Picciaola nel saggio, è la dislocazione, lo spostamento, la mescolanza, la generazione di cortocircuiti nella relazione tra la scuola e il mondo. Sperimentare e osservare, accettare e leggere le trasformazioni, ostacolando ogni addomesticamento alla logica patriarcale, al binarismo sessuale.
La divisione di genere non deve essere percepita come una trappola che esclude le diversità, ma bisogna educare verso il rispetto delle differenze e delle storie particolari delle persone e di come si percepiscono nella loro identità psicocorporea. Talvolta proprio le donne possono essere le paladine di un certo irrigidimento pedagogico. Un discorso molto delicato e che va affrontato con il dialogo e l’ascolto, cercando di non creare inutili barriere con chi sceglie strade diverse, senza cadere nella posizione opposta.
Sin dai primordi della storia della scuola nel nostro Paese, il mestiere della maestra è stato associato alle donne, considerandolo una delle poche professioni che garantiva l’autonomia economica di coloro che volevano conciliare lavoro e famiglia. Eppure proprio la classe docente femminilizzata ha rafforzato certe stereotipie di genere, non lavorando per l’emersione dei talenti femminili in ogni campo ma accettando la subordinazione culturale e professionale del genio femminile, spesso escluso dai manuali di ogni disciplina. Invece la cultura è confronto e relazione tra soggetti non definibili e in movimento, in via di trasformazione attraverso l’incontro con l’altro/a, oltre ogni canone prestabilito.
La pedagogia femminista chiede la revisione profonda del rapporto con il potere. L’insegnante non è la fonte della conoscenza ma è il testimone del processo di apprendimento individuale, collettivo e dinamico. Il piccolo gruppo cooperativo imposta il dialogo/dibattito e ne monitora ogni passaggio:
Il canone tradizionale è destinato ad essere rimesso in discussione, continuamente decostruito, soprattutto quello maschile che, unico e indisturbato, ha dominato per secoli.
Esplorate sono anche le dinamiche familiari, cercando di includere la molteplicità delle relazioni parentali, come quelle che si sviluppano all’interno delle famiglie arcobaleno, costituite da genitori dello stesso sesso. Anche il ruolo docente nella scuola pubblica statale viene indagato. La femminilizzazione del mestiere di insegnante è un dato innegabile. Il lavoro delle maestre è sottopagato rispetto alle medie europee. Lo stipendio fisso mensile della maestra e i tempi previsti per il lavoro ne fanno ancora oggi una specie di destino naturale per le donne lavoratrici. Se vuoi lavorare e avere una famiglia fai la maestra, questo il messaggio implicito in molte famiglie italiane, soprattutto nel Meridione e nel Centro, dove il lavoro scarseggia. Invece la didattica deve essere soprattutto un terreno di ricerca, un orizzonte di riferimento che mescola varie realtà del mondo esterno.
Bisogna avere il coraggio di smontare l’archetipo classico della maestra. Superare l’immagine onnicomprensiva di un femminile domato, condiscendente e prono, cinghia di trasmissione del potere cis-eteropatriarcale. All’insegnante si chiede (da contratto) di non essere divisiva rispetto alla sua comunità. Altro pregiudizio che le autrici del saggio provano a scalfire è legato alla gerarchia dell’insegnamento, dove è radicata l’dea che la scalata della carriera docente vada dai gradi inferiori verso quello superiori fino a quelli accademici, mentre non si considera il desiderio di percorsi alternativi. Pregiudizio avvalorato anche dalle disparità economiche tra i gradi di docenza e che si rafforza dal discredito sociale, subito dalle maestre di primaria e infanzia rispetto al prestigio accademico.
Come insegnanti e femministe bisogna prestare attenzione al nostro vissuto, a ciò che si propone nella relazione educativa. È necessario ricordarci del nostro sé bambino, riconoscere i tratti di condizionamento e gli stereotipi a cui abbiamo aderito per decostruire ogni cattivo condizionamento e costruire una soggettività aperta al dialogo in sorellanza. La rivoluzione sarà allora portare ciò che il contesto periferizza, occulta, rimuove e farsi ancora e in altro modo pietra d’inciampo, scandalo.
La parte curata più specificamente da Samanta Picciaiola riguarda la storia della giovane maestra suicida Italia Donati ai primi del Novecento. Tragedia che mette in luce gli aspetti più retrogradi della cultura patriarcale, anche sostenuta dalla gelosia e dall’invidia delle donne, sottolineando la mortificazione e la calunnia come armi assassine contro una donna sola, che voleva emanciparsi tramite il lavoro nella scuola. Entrambe le autrici del saggio usano una scrittura autobiografica che coinvolge con una prosa colta e disarmante, svelando contraddizioni e ombre di un sistema scolastico che risulta ancora antiquato e misogino.