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Rispecchiare la paura: “Frankenstein” di Mary Shelley

Sarah Brandi di Sarah Brandi
30 Giugno 2021
in Billy
Tempo di lettura: 4 minuti
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Passai l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. Il tempo era freddo e piovoso; la sera ci raccoglievamo attorno ad un gran fuoco di legna e ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, che ci erano capitate tra le mani. Queste letture destarono in noi un burlesco desiderio di emulazione. Decidemmo di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su qualche evento soprannaturale. Ma il tempo si fece improvvisamente sereno e i miei amici mi lasciarono per un’escursione sulle Alpi. Il mio racconto è il solo che sia stato portato a termine.

È la stessa Mary Shelley che nella prefazione al suo romanzo più famoso, Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo, racconta la genesi del mito dello scienziato matto che dà vita a un mostro: oltre al frutto di un suo incubo, la storia di Frankenstein e della sua Creatura nasce dal bisogno della scrittrice e dei suoi compagni di viaggio di occupare una giornata piovosa sul lago di Ginevra. Se i suoi amici con l’arrivo del bel tempo tralasciano questo svago, però, la giovane autrice decide di proseguire nei suoi esercizi di scrittura, fino a trasformare quella storia di fantasmi in uno dei racconti gotici più famosi di tutti i tempi.

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Pubblicato per la prima volta l’11 marzo del 1818 e con una seconda edizione nel 1831, Frankenstein è un romanzo epistolare basato sull’intertestualità. Numerosi, infatti, sono al suo interno i riferimenti letterari: la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, il Paradiso Perduto di John Milton, il mito di Prometeo raccontato da Ovidio ne Le Metamorfosi sono solo alcuni dei libri che ispirano la Shelley mentre scrive il suo capolavoro. Rifacendosi a diversi classici della letteratura, la figlia della protofemminista Mary Wollstonecraft compone un romanzo che in superficie non sembra essere altro che una storia dell’orrore in cui un giovane scienziato dà vita a un mostro pieno di rabbia e rancore che finisce per uccidere tutti quelli che l’uomo ama. In realtà, la storia scritta dalla moglie del poeta Percy Shelley nasconde molto di più. Prima di tutto, è uno dei libri che dà inizio al genere letterario della fantascienza. Per di più, gli orrori che racconta non sono altro che un mezzo per denunciare ed esorcizzare le paure di un secolo. Attraverso i suoi personaggi principali, Victor Frankenstein e la sua Creatura, infatti, l’autrice personifica il terrore della modernità che dilaga in Inghilterra, e non solo, nel corso dei XVIII e del XIX secolo a causa sia del progresso scientifico sia dei cambiamenti sociali.

In particolare, tramite Victor Frankenstein, personaggio faustiano che vuole con l’aiuto della scienza sconfiggere la morte che gli ha portato via l’affetto materno, la scrittrice riesce a mostrare quanto il progresso senza controllo possa essere disastroso per il singolo e per la società:

Imparate da me, se non dai miei consigli, almeno dal mio esempio quanto sia pericolosa l’acquisizione della conoscenza e quanto è più felice quell’uomo che crede che la sua città natia sia il mondo, di colui che aspira a diventare più grande di quanto la sua natura gli permetta.

L’ambizione di Victor e la sua brama di conoscenza lo portano a creare un uomo artificiale dall’aspetto mostruoso, sia per la sua statura sia per il suo essere un corpo composito, ottenuto dall’assemblaggio di membra provenienti da cadaveri diversi, che provoca man mano la morte di tutte le persone a lui più care. Quello che tutti chiamano comunemente Mostro di Frankenstein – anche se poi per i sentimenti che prova e per la sua eloquenza tanto mostro non è – o erroneamente Frankenstein – attribuendogli il nome di quel creatore che non lo ha mai battezzato, ma che lo ha ripudiato subito dopo la nascita – diventa la personificazione della pericolosità del progresso scientifico, la cui furia assassina è una minaccia per colui che gli ha dato vita e per la società intera.

Quella Creatura che si macchia di crimini così orribili, tuttavia, non è solo il simbolo della paura per l’avanzamento tecnologico che tra fine XVIII secolo e inizio XIX secolo attanaglia l’umanità, ma è anche metafora del timore della sessualità femminile che la società patriarcale in cui Mary Shelley vive prova. È proprio il suo non riuscire ad accettare che la donna, come l’uomo, sia dotata di organi riproduttivi che ha spinto Victor Frankenstein a voler creare la vita in maniera innaturale. Lo scienziato non vuole capacitarsi del fatto che essa possa avere appetito sessuale, rispecchiando il pensiero di un’epoca per cui la donna deve sottoporsi all’atto sessuale solo per procreare e quello di una società patriarcale che si sente minacciata da tutte coloro che, come le New Women, rivendicano la loro libertà in quanto persone partendo proprio dall’affermazione della loro loro sessualità.

Il capolavoro di Mary Shelley nasconde, dunque, tantissimi riferimenti alla cultura e agli eventi dell’epoca della sua composizione: da storia dell’orrore diventa riflessione sul ruolo della società nella corruzione dell’uomo, da libro che si preoccupa del progresso scientifico diventa romanzo che tratta in maniera sottintesa del posto occupato della donna in società e della paura dell’Impero Britannico di una reverse colonization. Tuttavia, se da un lato Frankenstein è così ancorato al contesto della sua ideazione, dall’altro tratta di temi universali ed eterni come quelli dell’ambizione e della solitudine, argomenti intimamente legati all’uomo che rendono il romanzo attuale e immortale ogni volta che lo si legge.

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