Ieri pomeriggio, in un angolino di Piazza del Gesù, LIRe ha cercato di non sprecare una buona crisi, trasformando un grosso polverone mediatico in qualcosa di più. I librai di Librerie Indipendenti in Relazione hanno infatti chiamato la cittadinanza per un confronto aperto sul problema dello spazio in città, asservito solo agli interessi di chi la città la consuma, ma non la abita. E la città ha risposto.
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, LIRe è una rete di librerie indipendenti nata nel primo periodo della pandemia. Le librerie indipendenti, all’epoca, avevano deciso di portare la cultura nelle piazze e nelle strade con una serie di passeggiate, presentazioni e reading. Una di queste manifestazioni è stata però interrotta dalla polizia causa assembramento. Per la presentazione a Piazza del Gesù del romanzo di Alessio Forgione, Il nostro meglio, LIRe ha deciso quindi di chiedere tutte le autorizzazioni necessarie. Peccato che, dopo settimane di attesa, la polizia amministrativa abbia inviato una lettera con una richiesta di 124 euro (più 16 di marca da bollo) di tassa per l’occupazione di suolo pubblico. Un tempo, tasse simili non superavano i 33 euro. Grande indignazione sui social: ecco l’ulteriore malefatta dell’amministrazione.
I membri di LIRe hanno deciso, però, di non cedere alla frustrazione e alla banalizzazione, chiamando la cittadinanza per fare un discorso molto più profondo: una riflessione sul modello di città che ormai ci viene propinato da anni e su come combatterlo. «Quella che doveva essere una presentazione è diventata un presidio», ha dichiarato Cecilia, della libreria Tamu. «Questa situazione, per quanto assurda e grottesca, può essere un’occasione di confronto su cosa succede nello spazio pubblico. Sul fatto che i tavolini dei bar siano gremiti di gente, mentre a essere represse, tassate e interrotte sono solo le forme di socialità che non prevedono il consumo».
Lo spazio pubblico è sempre più faticoso da usare, perché viene mangiato dagli interessi di chi la città neanche la vive. «Quello che è successo è all’interno di uno schema preciso – afferma Raffaele della Santa Fede Liberata – Lo schema di costruire le città e le piazze come posti dove si consuma: vestiti, alcol. I clochard vengono allontanati, i bambini che giocano ripresi dalla polizia. […] Su questo modello militare della città dobbiamo intervenire».
Nello spazio pubblico si può solo passare di fretta, senza fermarsi a respirare, senza viverlo. A meno che non stringi una birra in mano. A confermarlo è l’assenza delle panchine. «È una cosa fondamentale – Nives, ristoratrice Taverna Santa Chiara – In Piazza del Gesù crea proprio impossibilità di sostare. Per fare due chiacchiere con un amico inevitabilmente andiamo al bar. Si crea una dinamica sociale che diventa difficile controllare. […] LIRe ha scoperchiato un pentolone bollente».
«Napoli è diventata una città stupida, dove puoi solo bere e mangiare, come animali», sbotta Alessio Forgione, autore del libro fantasma. «Anche la presentazione di un semplice libro può sembrare strana, forse anche pericolosa. […] Napoli è città di tante cose, anche della pizza, ma siamo anche una città che sforna libri e racconta storie da millenni. Allora che dobbiamo fare? Rinunciare a una parte della nostra identità perché è meno vendibile di una margherita?».
La chiamata alla cittadinanza non è stata solo un modo di sfogare la rabbia e la delusione, ma un momento creativo dove avanzare proposte per riprendersi lo spazio pubblico. Riccardo Rosa di Napoli MONiTOR, giornale da tempo impegnato in inchieste sugli effetti della mercificazione dello spazio del centro storico, propone un’inchiesta collettiva. Coinvolgere tutte le persone che non hanno necessariamente l’abitudine di scrivere o raccontare, ma che sono persone che vivono, frequentano il centro storico e fanno i conti quotidianamente con questi problemi. Raffaele della Santa Fede Liberata rilancia con un osservatorio sociale, per monitorare e intervenire sulla realtà del centro.
Esistono due modi di intendere il termine politica. Il primo, quello convenzionale, vede la politica come un sistema di rapporti di potere gestito da professionisti. Il secondo, quello precedente al concetto di Stato-nazione, significava gestione della città a livello comunitario. La popolazione gestiva la cosa pubblica in assemblee cittadine dirette, faccia a faccia. Come la piccola assemblea che si è riunita ieri in un angolino di Piazza del Gesù. Mi sono avvicinata a questo incontro non perché avevo voglia di sentire le ulteriori lamentele sulla mala gestione di Napoli, ma perché ho sentito odore di indipendenza. Ed è ciò che ho trovato: librai, studenti, lavoratori, commercianti seduti in cerchio per trovare una soluzione concreta per il centro storico della città.
Centro storico che non è altro che un piccolo paesino, ma ben lontano da ogni idea di comunità. Dilaniato dalle diatribe tra piccoli commercianti e cittadini, tra le signore sedute di fronte ai loro vasci e gli universitari che fanno confusione, tra chi vuole parcheggiare l’automobile e chi lì ci vuole mettere i tavolini. Tra chi, come me, vorrebbe trovare un affitto a basso prezzo e i mille piccoli B&B che spuntano in ogni cortile. Troppi interessi, troppo diversi. E pochi tentativi di trovare compromessi. La città segue ogni mossa dei nuovi candidati alle elezioni come fosse telecronaca sportiva, ma ha perso la sua dimensione politica concreta. Quella di scendere, di riunirsi e parlare.
Incontrarsi, e non solo in assemblee cittadine formali, ma in discussioni pubbliche quotidiane nelle piazze, parchi, angoli di strada, osterie, circoli. Discutere di politica, nel vero senso della parola, ovunque si sta insieme. Ed è per questo che le parole inchiesta collettiva e osservatorio sociale mi entusiasmano. Il corpo cittadino ha bisogno di maturare, crescere, non solo creando un senso di coesione, ma anche facendo crescere personalità individuali forti, indispensabili per promuovere la consapevolezza e la capacità di autogestirsi. La singolarità dell’individuo deve essere favorita più che la sua subordinazione alla dimensione collettiva.
Napoli sta riscoprendo la voglia di ascoltare, di stare in piazza, di condividere e creare. Oltre alle librerie, questa città è piena di gruppi che riattivano spazi abbandonati, degradati o privatizzati, che altrimenti resterebbero ruderi in pieno centro storico. Santa Fede Liberata, L’Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo, Scugnizzo Liberato, l’Ex Asilo Filangieri, Villa Medusa, il Giardino Liberato di Materdei, l’Ex Schipa, LOSKA: comunità aperte autogovernate che promuovono arte e cultura. Ne avrò dimenticate mille, perché tante sono le realtà che riempiono questa città.
Sono tutti spazi in cui forse – ma forse – i cittadini di Napoli potranno sentirsi padroni del proprio destino, di poterlo determinare, anziché essere determinati da persone e forze sulle quali non hanno alcun controllo. Ed è qui che lo spazio pubblico diventa ancora più fondamentale: non un luogo in cui si consuma e si viene consumati, ma un luogo di maturazione individuale, di creazione, di arte e di cultura. Un luogo dove si trovano soluzioni, e si riprende il controllo della propria storia.