Remo Rapino, Premio Campiello 2020, torna in libreria con un nuovo romanzo: Cronache dalle terre di Scarciafratta. Al centro, come già con Bonfiglio Liborio, ci sono quelli che la Storia dimentica: gli uomini semplici. Se Liborio è stato eccezionale cronista della sua vita, portando il mondo nella sua esperienza di folle, a Scarciafratta sono le “storie perdute del paese” a riemergere nelle trascrizioni del suo ultimo abitante: Mengo. Due operazioni diverse che posano sulla determinazione filosofica e poetica dell’autore di camminare sul lato della piazza con lo scemo, invece che col principe. Tale è, per Rapino, il fine ultimo della letteratura e, in particolare, del romanzo: non correre dietro al mondo, ma raccontare, come un fotografo che sia in grado di imprimere sulla pellicola un effetto sempre diverso, i semplici e, così, capire le complessità del mondo. Nel far questo, si avvale di una lingua che definisce guasta, meticcia: una lingua che rifiuta ogni purezza e con essa il controllo, il potere, la guaina contenitiva della norma. Lo abbiamo intervistato a Roma, in occasione di Più Libri più Liberi.
Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax) è un romanzo con una voce particolare: viene dal margine, eppure si trova al centro della narrazione. Perché ha scelto una prima persona così fuori fuoco?
«La marginalità è la cifra che caratterizza il romanzo. Possiamo definire Bonfiglio Liborio come una voce che cammina nella storia. Che raccontando se stesso, in fondo, racconta la storia del nostro paese. Come se l’autobiografia di un singolo uomo diventasse quella di una nazione. Io sono convinto – forse questo deriva anche dall’aver insegnato storia e filosofia per tanti anni – che la storia non la facciano solo gli imperatori, i sovrani, i principi, i papi, ma anche gli uomini semplici. Come diceva Francesco De Gregori, quelli che non sanno neanche parlare. Fanno anche loro la storia. Liborio rientra in questa categoria – tra l’altro è anche balbuziente, quindi a pieno titolo rappresenta una figura marginale. Però riesce dai margini a vedere cose che dal centro non si riesce a vedere. C’è un bel verso di De André, di Un Matto, tratto dall’Antologia di Spoon River: la luce del giorno divide la piazza tra il villaggio che ride e lo scemo che passa. Ecco, io mi sono messo su quel lato della piazza a far parlare uno scemo. Uno scemo, un folle, un neurodiverso, la cui energia mette in crisi i nostri codici dominanti, le nostre presunte certezze, le nostre presunte verità. Liborio ha questa funzione: di vedere l’invisibile e dire l’indicibile».
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Anche perché il concetto di follia prima aveva un’accezione diversa: quella di essere invasato da una divinità.
«Sì, il folle era pieno di entusiasmo: dal greco ἐνθουσιασμός, essere pieno di Dio. Un profeta, in qualche modo. In questo senso vede l’invisibile, e lo dice con un linguaggio molto complicato, dialettizzato, pieno di sgrammaticature e ripetizioni, una sintassi fantasiosa. Ho immaginato un vecchio non scolarizzato che racconta la sua vita – e la vita degli altri – e quindi scrive come parla. Non può essere una scrittura perfetta, anzi, sarebbe non credibile. Il linguaggio è coerente con la psicologia del personaggio».
A proposito del linguaggio: nei Suoi romanzi c’è una ripresa del dialetto, fuso all’italiano. È un’inversione di tendenza che stiamo riscontrando in molti romanzi – penso, ad esempio, a Sangue di Giuda di Graziano Gala (minimum fax) – però questa riaffermazione coincide con un periodo storico in cui i dialetti vengono sempre più abbandonati.
«Ultimamente ho ricevuto da Fabio Stassi un saggio molto bello sul linguaggio usato in Bonfiglio Liborio, perché alla fine del romanzo avevo inserito anche un glossario per rendere più comprensibili alcuni termini. E, in effetti, lo studioso ha messo alla luce come questo flusso parlato non sia né dialetto né italiano, ma faccia parte di un linguaggio popolare che è un linguaggio meticciato, una lingua guasta, come scrissi in un articolo tempo fa. Lì coinvolgevo Graziano Gala, Domenico Dara, vari scrittori, perché c’è effettivamente tutta una tendenza che si muove nella direzione di recuperare un linguaggio che è un flusso parlato in cui si esprimono con immediatezza i sentimenti, le sensazioni, le reazioni. Questa è una caratteristica che spesso abbiamo nel Meridione: nel Salento, in Abruzzo, in Campania, in Calabria, insomma nel Regno di Napoli, come si sarebbe detto una volta. Io ci ho messo molto tempo per capire come scrivere questo libro e in effetti, alla fine, ho pensato di scriverlo come una sorta di diario, di scriverlo in prima persona e di scriverlo così come immaginavo che Bonfiglio Liborio parlasse, col suo flusso verbale fatto anche di errori. Però ottiene anche effetti comici, o così mi è sembrato».
Penso che la Sua lingua sia anche coerente con la Sua posizione nel mondo: c’è sempre un certo classismo nell’imposizione dell’italiano, è la lingua dei colti e delle metropoli.
«Certo, molto. Io credo che la scrittura e la lingua siano una cartina tornasole di una società. Avere una ricchezza di linguaggio comporta una maggiore capacità di comprendere la realtà, di spiegarsela. Il dialetto, questa lingua meticciata, in realtà è ancora più vasta, mentre spesso la lingua italiana, quella corretta, è un po’ imbalsamata. È un po’ sclerotizzata, fa fatica. Il dialetto invece è immediato, subito mette in contatto le persone. C’è poi da dire che il dialetto viene parlato in certe zone d’Italia anche dalle classi più alte e non a caso in quelle zone abbiamo una forte poesia dialettale, come in Friuli, Romagna, Liguria, Lombardia. Quindi, io sono convinto che questo modo di esprimersi allarghi gli orizzonti di comprensione del reale e che, dunque, avendo più parole meglio comprendiamo il linguaggio e vediamo o diciamo cose che gli altri non riescono a dire o vedere. Bisogna essere un po’ folli per farlo, questa è la conclusione in fondo».
Nei Suoi romanzi c’è anche un legame tra dialetto e territorio: ci sono tratti morfologici di certi luoghi esprimibili solo attraverso lingue nate lì.
«Nei miei romanzi i territori non sono mai espressamente riportati. Io non cito mai il paese di Bonfiglio Liborio e Scarciafratta è un luogo inventato – in realtà è un soprannome di una famiglia molto povera del paese di mia madre (questo è un segreto, puoi tagliarlo). Il territorio c’è, è presente, è dentro di me. Io ho sempre frequentato la mia terra, ho le radici lì, penso però che sia un perimetro che si allarga: Liborio può vivere sotto qualsiasi cielo, Scarciafratta può essere qualsiasi luogo del mondo. Liborio può vivere a Santiago, Pavia o Parigi. Scarciafratta è una certa Macondo, piena di personaggi strani con nomi strani. Però, simbolicamente, rappresenta una certa parte dell’umanità, quell’umanità a cui non viene data parola, e il linguaggio diventa uno strumento di conflitto. Di conflitto di classe, che esiste, anche se adesso vogliamo abolirlo, ma esiste. Quindi il modo di parlare ricorda lo scontro tra i Cappelli e i Cafoni di Silone, di Fontamara. O di Corrado Alvaro, della sua Calabria, di Gente in Aspromonte. Abbiamo un grande retaggio. E allora queste persone devono diventare, per un momento della loro vita, protagonisti, lasciando la loro storia, raccontando la loro storia o quella di altri, che poi sono la maggioranza della popolazione. Il mondo è pieno di Libori, è pieno di Mengo, è pieno di Scarciafratte, insomma, no? E spesso invece la letteratura è troppo paludata, sta in un angolo che non è più quello di oggi: il mondo cambia continuamente. Mentre la letteratura deve stare su quel lato della piazza dove cammina lo scemo, il folle, il diverso».
Sono d’accordo, andrebbe ridefinita la posizione spaziale delle cose. La città sembra qualcosa di enorme, nel nostro immaginario, una cosa dov’è il centro. Alla fine, le città, quelle principali, sono puntini microscopici in un territorio fondamentalmente formato da Scarciafratte.
«Certo, ma anche la città è piena di Scarciafratte. Ogni città è tante città insieme, quindi ogni paese è pieno di altri paesi».
Quindi questo concetto di periferia, di città sperduta come se fosse lontana, in realtà è un errore di percezione. Forse anche proprio a causa della rappresentazione mediatica.
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«A volte serve anche a legittimare il potere costituito, la classe dominante in quanto tale. Noi viviamo all’interno di un mondo dove ci sono troppe categorizzazioni: lo straniero e l’italiano, il disabile e l’abile, l’omosessuale e l’eterosessuale, il diverso e il normale. Sono categorizzazioni che hanno una grande violenza interna, perché dimenticano un fatto fondamentale: che queste sono persone. Il concetto di persona va recuperato. Liborio è una persona, al di là del fatto che sia strano, e così sono Mengo, gli Scarciafratte e tutti gli altri personaggi che rappresentano una parte dell’umanità, che va salvaguardata in quanto persona».
Il concetto di norma, secondo me, è molto violento in generale. Vorrei che ci raccontasse un po’ di più di questa esperienza editoriale, di questo nuovo romanzo.
«La differenza è che in Liborio la voce è unica e dà fiato ad altre voci, se vogliamo. A una storia che è sua e degli altri, di cui lui è protagonista senza rendersene conto. In Scarciafratta, in queste cronache, il discorso è più corale. Il protagonista non è un uomo, è una città che raccoglie tante persone, tanti soggetti, tutti dai nomi volutamente strani, che si raccontano. E in questa storia c’è un personaggio che vive da solo in un paese e vede cose che non esistono più, vede persone che non ci sono più, perché il paese è disabitato e distrutto dalla Cosa Brutta del terremoto. Tra l’altro, devo dire che io non mi affido molto alla fantasia. Prima di scrivere faccio molta ricerca: può essere negli archivi di un manicomio, può essere una realtà geografica, una storia locale. Mi accorgo, poi, che la fantasia è molto più povera della realtà. La realtà ci dà molte più occasioni di riflessione e discussioni, e quindi più occasioni per inventare storie. Esistono, tra l’altro, paesi sul crinale dell’Appennino che sono stati abbandonati. Ci sono molti paesi morti, paesi che non esistono più, paesi fantasma. Uno di questi l’ho inventato, ma rappresenta tutti gli altri paesi che esistono perché la gente si è trasferita (o per le migrazioni o per eventi naturali come il terremoto) verso la costa dove c’è più lavoro, dove c’è più ricchezza. In un paese di questi è rimasta per tanto tempo una persona sola, un certo Mengo, che è esistito veramente. Da lì, sono partito per inventare tutto il resto. Il punto di partenza è reale, non di fantasia. Questo anche per Liborio, la stessa cosa».
Un’autrice, una volta, mi disse che per lei scrivere non è un lavoro d’immaginazione quanto di ricerca, che può essere interiore o esteriore nei rapporti e nei costrutti sociali, ma che non si tratta necessariamente di un processo di allontanamento.
«No, assolutamente. Partire dalla realtà vuol dire volare alto ma con i piedi ben saldi alla terra. Questo è il ruolo dello scrittore, secondo me. E io penso che ci sia l’esigenza di raccontare cose reali inventando cose che non esistono affatto. Posso parlare di una cosa che esiste raccontando di cose che non sono mai esistite. Da questo punto di vista, il linguaggio è qualcosa che esprime realtà che sussistono, rielaborate attraverso la parola, attraverso la scrittura. È il ruolo della scrittura: rielaborare il reale, fotografarlo e sviluppare la fotografia con delle tecniche che la rendono, non so, sgranata, bianca e nera, a colori, color seppia. Il soggetto è sempre lo stesso però le immagini, la luce, sono diverse».
Crede che questi piccoli paesi abbandonati dell’Appennino possano avere un futuro o appartengano al passato? I flussi migratori, ad esempio, hanno creato persone senza case e, in questi borghi fantasma, ci sono case senza persone. Anche il riscaldamento globale porterà al probabile abbandono delle coste. Secondo Lei, potrebbe esserci un ritorno al paesino?
«Nella dimensione che viviamo attualmente c’è una tendenza – Pasolini è stato un profeta in questo senso – all’omologazione, all’eccessiva tecnologizzazione che comanda e che organizza tutta la nostra vita quotidiana. Oggi non sappiamo più scrivere con la penna, non sappiamo più orientarci se non attraverso lo smartphone, quindi io credo che ci sia questa esigenza. E stranamente questi paesi, che una volta erano abitati da poveri, adesso stanno venendo riconquistati dalle persone più abbienti. Comprano case, le ristrutturano, per esempio a Rocca Calascia, nell’aquilano, è accaduta la stessa cosa. Molti romani hanno comprato delle case ormai in rovina, macerie, e le hanno ristrutturate portando anche un flusso economico. Io credo che più andiamo avanti dal punto di vista della cosiddetta modernizzazione – perché la modernizzazione è una forma di violenza, anche al di là delle intenzioni di chi ne è protagonista – più si fa sentire l’esigenza di un ritorno, di una quiete, di un passaggio verso una dimensione più semplice, meno complicata, staccata da tutto: i grandi social, la tecnologia, le informazioni che ti entrano dentro casa. Io credo che la scrittura, la letteratura, abbiano un grande compito, forse l’ultima spiaggia di salvezza rispetto a quel mezzo di dissuasione e di pauperizzazione della coscienza che è la televisione, proprio come diceva Pasolini. Che sia attraverso la televisione o gli altri media, parliamo solo di quello di cui ci vogliono far parlare, non sappiamo più niente di quello che accade. Mentre il mondo è pieno di drammi, di tragedie, lo vediamo anche in questi giorni, questo tempo, l’età della pandemia, nei confini tra i paesi, quello che sta accadendo è terribile. Eppure i mezzi di comunicazione non ne parlano. Ne fanno una piccola notizia del telegiornale».
C’è una forte polarizzazione nel dibattito televisivo: come diceva Chomsky, quando le uniche due opinioni che vengono urlate sono quelle una opposta all’altra, tutto ciò che c’è nel mezzo viene annullato.
«E non si comprende più la complessità del reale, perché il reale è molto complesso e ce lo semplifichiamo per mettere a posto, spesso, la nostra coscienza».
A mio avviso, molto spesso il problema non è neanche la modernizzazione in sé, né la tecnologia, quanto l’immaginario che viene assieme alla tecnologia.
«C’è stato forse un equivoco di fondo, anche qui Pasolini è maestro: una cosa è il progresso, che riguarda l’umanità, dovuto alla scienza, alle migliori condizioni di vita complessive. Un’altra cosa è lo sviluppo inteso soltanto in modo quantitativo, economico. È questa forse la radice per comprendere quanto ci è accaduto. Ecco come nasce Scarciafratta, una Macondo che non c’è e non dovrebbe esserci, un po’ il ritorno dell’utopia, di un luogo in cui gli uomini vivono felici. Certo, in realtà non è così, non bisogna neanche esagerare, la vita in quei paesi era terribile negli anni, specie in Italia. Però si tratta di un’immagine simbolica di un ritorno alla semplicità».
L’utopia è sempre un po’ pericolosa perché tende a semplificare le cose, però allo stesso tempo porta una visione.
«Più il mondo diventa distopico – la distopia è lo sviluppo di un senso drammatico e tragico nelle situazioni umane – più l’utopia ritorna come nostalgia, come rimpianto, come esigenza di altro. E io credo che gli uomini abbiano il diritto anche alla nostalgia».