Chi le taciturne porte
guarda che la Notte
ha aperte sull’infinito?
Dino Campana, La speranza sul torrente notturno
Nel 1962, un Reinaldo Arenas di appena vent’anni leggeva un testo inedito davanti a una giuria di scrittori per un concorso di creazione letteraria, indetto dalla Biblioteca Nazionale di Cuba. Questo giovane di provincia, dalla voce leggermente nasale e dai gesti graziosi, riuscì a catturare l’attenzione di quel tribunale che gli chiese di sviluppare ulteriormente il testo e presentarlo nel premio di romanzo dell’UNEAC, l’Unione Nazionale degli Scrittori e Artisti Cubani.
Questo racconto, che sarebbe diventato il primo libro dell’autore con il titolo di Celestino prima dell’alba, è uno dei più genuinamente poetici della sua produzione. Ed è poeta il bambino protagonista della storia, evidente alter ego dell’autore: un guajiro, contadino cresciuto in una famiglia autoritaria e analfabeta, che, avendo imparato a scrivere, incide sulla corteccia degli alberi delle strane poesie, ingenui e appariscenti. Appariscente e carico di una sovversione inaccettabile è, in realtà, lo stesso gesto della scrittura, punito dal nonno del bambino poeta. Costui, per convincerlo a non ripetere qualcosa che possa far parlare la gente e per difendere la famiglia dalle minacce a cui il nipote la espone, inizia a gettare giù gli alberi sulla cui corteccia sono graffiati i suoi versi spaventosi.
Quella landa desertica in cui si trasforma lo spazio abitato dal bambino e dalla sua famiglia sembra riflettere il paesaggio di controllo, censura e ostracismo che Reinaldo Arenas presto avrebbe vissuto sulla sua isola. Una Cuba in cui sarebbe stato costretto a battere a macchina i suoi scritti nei luoghi meno pensati e a volte con la radio accesa a un volume molto alto e sintonizzata su qualche programma patriottico, in modo che non si sentisse che stava lavorando.
Nella postfazione alla più recente traduzione in francese di Celestino prima dell’alba, il traduttore Didier Coste, riferendosi all’io narrante del romanzo, parla di “lirismo elegiaco”, estendibile a tutto il primo periodo della scrittura di Arenas, ovvero ai romanzi che fanno parte della Pentagonía.
In questo primo libro dello scrittore cubano quello che salta agli occhi è una mancanza di linearità cronologica dei fatti narrati, ciò che produce un effetto di istantaneità. I frammenti della storia si sovrappongono, si discompongono, entrano in collisione. La prosa si trasforma in verso, in dialogo teatrale, è tagliata da epigrafi degli stessi personaggi della storia, o di autori come Rimbaud: presenze raggruppate in un proscenio, come se fossero comparse nello spettacolo delle visioni del bambino che narra la storia.
Ma chi è Celestino? Innanzitutto è nato, come il protagonista, dall’assenza di padre e dalla profanazione di madre. È un doppio, che non deve vedersi soltanto come un sintomo di traumatismo, dell’incapacità dell’io narrante di accettare la propria solitudine, di avere una relazione con il reale o, in senso inverso, la picaresca abilità di gettare sull’alter ego la responsabilità delle proprie colpe. O infine l’incarnazione naif del desiderio omosessuale.
Non solo. C’è qualcosa di più intimo e di selvaggiamente delicato in questo accordo tra l’uno e l’altro. Perché entrambi sono già morti, eterni, fantasmagorici e posseduti da quel frenetico bisogno di vita che ha solo chi ha lasciato questa terra da molto tempo.
Se l’io narrante non ha un nome, e si confonde con quello di Celestino, è ossessiva e dilagante la terminologia della campagna cubana, una natura sempre viva che esibisce con vanto i propri simboli e, soprattutto, il proprio nome. Questa, forse, è una delle maggiori sfide del traduttore, trovarne le corrispondenze nella propria lingua, laddove possibile.
Dal mio primo incontro con Reinaldo Arenas, avvenuto tra le bancarelle di un mercato di libri usati a Montevideo, in Uruguay, ho fortemente desiderato riportare in Italia la sua voce poetica che, di romanzo in romanzo, si compone come un rosario di maledizioni e di parodie contro qualsiasi ideologia, tradizione o entità metafisica che possa esercitare qualche controllo sulla libertà dell’essere umano.
Chissà che Celestino non sia solo il primo a incontrare il pubblico italiano di tutti gli altri libri dell’opera di Arenas, una delle più più irriverenti e ispirate della letteratura cubana, ancora taciuta e marginalizzata dall’ufficialità culturale.
Contributo a cura di Alessio Arena