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Referendum, Prof. Greco: «Con un Parlamento troppo debole, non c’è democrazia»

Farouk Perrone di Farouk Perrone
14 Settembre 2020
in Interviste
Tempo di lettura: 7 minuti
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Domenica 20 e lunedì 21 settembre, gli italiani saranno chiamati alle urne per votare il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Dopo aver accolto la testimonianza del Professor Andrea Pertici – favorevole alla riforma –, abbiamo contattato il Professor Tommaso Greco, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Pisa, che ci ha spiegato quali sarebbero gli effetti in Parlamento in caso di vittoria del sì, fornendoci anche un’ampia prospettiva sul concetto di antipolitica e sulla sua stretta correlazione con il referendum in questione.

Professore, per quale motivo si afferma che la riforma inciderebbe sulla tenuta democratica delle nostre istituzioni?

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«Più che di pericoli relativi alla “tenuta democratica” credo che l’argomento impiegato da coloro che avversano questa riforma sia quello dell’impatto che essa avrà sia sulla rappresentatività dei territori sia sulla rappresentatività delle opinioni delle minoranze. Da questo punto di vista è indubbio che la riforma paghi un prezzo in termini di democraticità, se con democrazia intendiamo un sistema politico nel quale, tra le altre cose, esiste un rapporto stretto tra cittadini e istituzioni».

Pensa che dietro il referendum ci sia l’obiettivo di colpire il Parlamento, considerando che chi l’ha proposto parla da tempo di democrazia diretta?

«Questo credo sia il punto nel quale si colloca la ragione principale per votare no al referendum. Quando non si capisce bene da che parte stia la ragione, è sempre bene guardare ai motivi per i quali si fa ciò che si sta facendo. Al di là della questione specifica della riduzione del numero dei parlamentari, il quesito nasce, infatti, nel contesto di una visione antiparlamentaristica, per non dire addirittura antipolitica. Si è diffusa l’idea che il Parlamento sia un’istituzione inutile, dove si parla e si perde tempo, ma si dimentica che esso ha proprio questa funzione: far sì che le idee, gli interessi, i valori diffusi in un paese possano confrontarsi civilmente per arrivare a decisioni comuni che siano poi vincolanti per tutti. Quando si diffonde il fastidio per il Parlamento non è mai un buon segno».

Siamo sicuri che un Parlamento, solo se corposo, conceda maggiori possibilità di trovare brave persone? D’altronde, in termini numerici, questa è la stessa istituzione che ha sostenuto che Ruby fosse la nipote di Moubarak e così via…

«La storia parlamentare, non solo quella più recente, è piena di cose inenarrabili, che si fatica a credere vere. Ma qui non si tratta di difendere un Parlamento o dei parlamentari specifici. Si tratta del senso di un’istituzione che è centrale in qualsiasi democrazia, perché deve essere chiaro che senza Parlamento, o con un Parlamento troppo debole, non c’è democrazia. Quello della qualità, cioè della serietà e della competenza dei parlamentari, è il vero tema che dovremmo affrontare, ma non sarà certo risolto da questa riforma, che si limita a ridurre il numero dei membri del nostro Parlamento, riducendo quindi la possibilità che persone capaci e serie possano essere elette. E aggiungo un ulteriore elemento: in un Parlamento meno numeroso ci sono meno possibilità che ne faccia parte qualcuno che sia in grado di opporsi alle derive antidemocratiche, qualora dovessero verificarsene le condizioni».

Considerando la diversità di materia, c’è una continuità tra il no alla riforma Renzi del 2016 e quello alla riforma sul taglio dei parlamentari?

«Non sono la stessa cosa, ma è evidente che tra i sostenitori del sì ci sia una parte consistente che spera in questa riforma come primo passo per poter poi “adeguare il sistema”, realizzando ciò che non si era riusciti a realizzare nel 2016: in particolare, la riforma del bicameralismo fino ad arrivare a un monocameralismo politico e un nuovo bilanciamento dei poteri a favore del governo. Questo mi pare ormai chiaro, motivo per cui ho sempre messo in guardia coloro che sono a favore del no a usare l’argomento che questa riforma vada bocciata perché non si tratta di una riforma “organica”. Io direi che vada bocciata proprio perché può essere l’innesco di una serie di riforme che, almeno a mio parere, non sarebbero auspicabili».

Che correlazione esiste tra la sfiducia nei confronti della politica, maturata in questi anni dai cittadini, e la riforma di cui stiamo parlando?

«Si potrebbe citare Hannah Arendt e dire che oggi la politica consiste nel pregiudizio verso la politica. Sono ormai decenni che il dibattito politico si alimenta di un sentimento antipolitico, che è stato usato abilmente da certe forze e che si è diffuso ampiamente in tutto il paese e in tutte le fasce sociali. Naturalmente, questo sentimento – che è stato in parte indotto da una vera e propria manipolazione del potere ideologico che risiede negli organi di informazione – non nasce dal nulla e ha le sue ragioni. Ma, come sempre avviene, esso non è stato all’origine di un rinnovamento della politica e dei partiti, ma ha portato a un suo ulteriore deterioramento, che ha fatto emergere una classe dirigente che mai era stata così poco all’altezza del compito che le spetta (con rarissime eccezioni). Purtroppo, anche qui è valsa la legge economica per cui la moneta cattiva scaccia quella buona. Le ragioni per cui questo è avvenuto sono molte; il discorso dovrebbe quindi essere piuttosto lungo e naturalmente non possiamo farlo qui. Mi limito però a sottolineare che, da un certo momento in poi, si è del tutto interrotto il dialogo fecondo tra politica e cultura che era stato una caratteristica fondamentale della prima fase della Repubblica, diciamo fino all’inizio degli anni ’80, quando è cominciata la degenerazione che ci ha portato fino alla situazione di oggi».

Se i parlamentari fossero di meno, pensa che avrebbero maggiore responsabilità?

«Non credo ci sia un nesso automatico, anzi. Un Parlamento con meno membri, per poter funzionare, deve necessariamente riorganizzare, e magari ridurre, il proprio lavoro, questo sicuramente. Ma la responsabilità è un’altra cosa e la si raggiunge (o quantomeno si può provare a raggiungerla) legando ogni comportamento a delle conseguenze. Faccio un solo esempio: prendiamo la pessima pratica di candidarsi quando si è già membri di un organismo elettivo. Chiaramente non lo si può impedire, perché l’elettorato passivo rientra, e giustamente, nel novero dei più fondamentali diritti politici. Però, si potrebbe fare un’altra cosa: imporre, in caso di elezione, la scelta di rimanere nell’organismo per il quale ci si è candidati da ultimo. Cioè, se tu sei un parlamentare europeo e ti candidi al consiglio regionale, allora se risulterai eletto decadrai dal primo e rimarrai nel secondo. In questo modo si eviterebbero molte furbizie e si renderebbe responsabile quella decisione. Credo che cose come queste si potrebbero fare a molti livelli.

Per tornare ai parlamentari, la loro responsabilità può essere affermata, da un lato, rafforzando il dialogo con gli elettori (e non il loro controllo, come vorrebbero i fautori del mandato imperativo), e dall’altro rendendo pubblici al massimo grado sia le attività che i comportamenti tenuti da ciascuno, nonché stabilendo meccanismi in grado di scoraggiare comportamenti “irresponsabili” come il diffuso assenteismo».

Augurandoci che tale riforma non sia stata ispirata da logiche punitive, come bisognerebbe far capire agli eletti che parte dei cittadini non si sente rappresentata?

«Il fatto che i cittadini oggi non si sentano rappresentati è un problema enorme che viene del tutto sottovalutato. La percentuale altissima di astenuti in ogni elezione ci dice che il sistema non appare più legittimo, come invece dovrebbe essere. Chi considera l’astensione un segno di salute del sistema politico è, nel migliore dei casi, un superficiale, nel peggiore un irresponsabile o addirittura un “furbo” che ha interesse a non riattivare la partecipazione democratica. Il problema di come farlo capire rientra nel discorso più generale che facevamo poco fa sulla qualità degli eletti. Ma, di sicuro, una riduzione del numero dei parlamentari non va nella direzione di una maggiore rappresentatività degli eletti rispetto agli elettori».

Di quali interventi necessita non solo la Costituzione, ma il sistema politico-partitico in generale, al fine di offrire maggiore rappresentatività?

«Intanto sfatiamo un mito: chi ha detto che i problemi del sistema politico italiano abbiano origine dalla Costituzione? Questa convinzione, che si è diffusa dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, ha giustificato tutti i tentativi di riforma, quasi tutti più o meno (e per fortuna) falliti. Forse bisognerebbe soffermarsi sul fatto che questi tentativi sono iniziati quando è cominciata a crollare la credibilità della nostra classe politica. Proprio per questo trovo del tutto fallace l’argomento, riferito al quesito attuale, secondo cui questa è una riforma che si vuole fare da tempo. A mio parere, il fatto che si sia mai fatta è un argomento a favore del no: se non la si è mai fatta, ci saranno delle ragioni!

La verità è che il sistema politico italiano ha un problema che non può essere risolto dalle riforme della Costituzione, ed è quello della qualità della classe politica. Un problema difficilissimo da affrontare. Da sempre, l’argomento principe contro la democrazia si è basato sul fatto che essa non seleziona affatto i migliori. Ciò non significa che non dobbiamo provarci e adottare tutte quelle misure che possano aiutare ad andare nella direzione giusta. Una di queste, a mio parere, è una riduzione drastica degli emolumenti, non solo per ragioni economiche (i famosi risparmi che si vorrebbero raggiungere con il taglio del prossimo referendum) ma soprattutto per ragioni di moralità. La politica non deve essere fonte di privilegi. Certo, si deve mettere chi vuol fare politica nella condizione di vivere dignitosamente e di svolgere il suo compito senza dover cedere ai ricatti, ma non si deve farne un privilegiato, un potente, uno che si stacca per ciò stesso dai suoi rappresentati. Molto si può fare anche con la legge elettorale, per quanto sia difficile conciliare tutte le esigenze.

C’è da tenere presente, infine, che le riforme non sono mai strumenti astratti e devono fare i conti con la realtà sociale e politica del paese in cui vengono attuate. Se in Italia ci fossero un radicato e diffuso sentimento civico, una magistratura governata da un forte spirito di indipendenza e un sistema informativo capace di fare davvero le pulci al potere, forse potremmo permetterci un maggiore sbilanciamento a favore del governo, dato che funzionerebbero altri meccanismi di controllo. Ma sappiamo bene che in Italia quelle condizioni mancano, e perciò abbiamo bisogno di un Parlamento vigile, che non sia solo al servizio del governo, ma sia anche — non voglio dire innanzitutto — il controllore del governo stesso.

Un’ultima considerazione. Quando si fanno le riforme occorre sempre immedesimarsi nella parte perdente e non in quella vincente. Facile pensare di rafforzare i poteri del governo, quando pensi che al governo ci sarai tu insieme alla tua parte politica; invece devi pensare a quando al governo ci saranno coloro che hanno una idea di società opposta alla tua. Ed è per questo che le famose regole del gioco devono essere il più possibile condivise e cambiate il meno possibile».

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