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Premio Nobel per la Pace al Comune di Riace? Grazie, ma…

Pasquale Manella di Pasquale Manella
9 Novembre 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 5 minuti
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È giunta per bocca di Flavio Lotti, coordinatore della marcia Perugia-Assisi, la proposta di candidare l’intero modello Riace al Premio Nobel per la Pace. Che il Primo Cittadino del piccolo Comune calabrese, Domenico Lucano, abbia elaborato e stia perseguendo, pur superando le regole date, un ideale di accoglienza autenticamente solidale e capace di restituire umanità e dignità non solo ai suoi concittadini ma a un intero Paese sempre più preso nella morsa delle sue paure, non v’è dubbio, ma proprio in virtù dell’autenticità di tali valori credo ci sia da augurarsi che questi non vengano mai sporcati con l’ipocrisia di premi per la pace dell’ultim’ora, strumentalmente elargiti per far capire ai cattivi da che parte stanno i buoni.

Andiamo pertanto ad affrontare il problema alla radice. Il decreto che porta la firma del Ministro dell’Interno, pur nella sua paradossale imbecillità, ripiegato com’è su stesso nel tentativo di portar sicurezza là dove questa già c’è, è solo la conseguente risposta di pancia di un popolo pigro, quello italiano, che non ha percezione di sé (in quanto non esiste), a fronte degli interessi di altri popoli ben consolidati nella loro autoreferenziale consapevolezza, come ad esempio quello francese, che esercita fortissimi interessi di stampo coloniale su tutti quei Paesi da cui le grandi migrazioni africane hanno origine all’insegna di un elegante non detto che si scrive cooperazione, ma si legge sfruttiamoli a casa loro. Noi, al contrario, da bravi avventori del bar sotto casa, siamo invece ancora fermi a un ingenuo, quanto temibile, nonché accomodante sul piano della coscienza aiutiamoli a casa loro. Ma la vera via passa attraverso un dibattito serio e conseguenti azioni che portino alla liberazione delle popolazioni africane da parte degli stessi africani. Bisogna cioè spingere la discussione verso le sedi opportune che sono quelle internazionali, accusando con prove certe i veri agenti della carneficina che si consuma da troppi anni sia in terra d’Africa che, di conseguenza, nel Mediterraneo, considerato ancora oggi dai transalpini come un’estensione della Francia verso l’Algeria e il resto del Continente Nero, e dagli inglesi come un lago britannico da governare alla stregua di una qualunque altra provincia extra-territoriale.

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Situazione evidentemente inaccettabile trattandosi, per chi non l’avesse ancora capito, del Mare Nostrum sulle cui acque tutti hanno diritto di affacciarsi liberamente e trarre reciprocamente vantaggio dagli scambi che da secoli si realizzano tra una sponda e l’altra. In tutto ciò, il decreto sicurezza non può che configurarsi come il prosciutto che dobbiamo togliere dai nostri occhi, la lanterna che proietta sulla parete di una caverna abitata da vigliacchi le ombre di un’atroce realtà che dobbiamo tornare a vedere per quella che è.

Non c’è, infatti, bisogno di alcuna forma di sicurezza posticcia, laddove i fondamentali socio-economici di un qualunque sistema Paese siano di per sé messi al sicuro, cosa della quale avrebbe disperatamente bisogno l’Italia, la cui odierna realtà parla invece di deprecabili contingenze quali discriminatorie forme di redditi di cittadinanza da garantire su base territoriale, dolci e silenziose secessioni mascherate da autonomie regionali, mancata detassazione per gli investimenti e l’infrastrutturazione delle regioni del Sud, tagli ai fondi per l’istruzione e la sanità pubbliche, e trattati di Dublino a loro tempo firmati in cambio di miserabili forme di flessibilità, che ancora oggi paghiamo sul fronte occidentale sotto forma di impunite invasioni di campo da parte dei pronipoti di sua maestà Vercingetorige che continuano a scaricare, al riparo tra le fronde degli alberi nei boschi tra Bardonecchia e Claviere, indesiderato materiale umano. Nel frattempo, in Spagna si sottoscrivono accordi tra socialisti e Podemos che porteranno la terra di Picasso e Cervantes fuori dallo stallo legato all’attuale situazione economico-finanziaria che, dal 2008 a oggi, cinge come in un assedio da annessione monetaria l’intero meridione d’Europa mentre qui, in Italia, preferiamo continuare a parlare in tutta tranquillità di Salvini e clandestini, come canta Dario Brunori, chiusure domenicali dei centri commerciali e soprattutto dell’annoso problema legato a una nazionale di calcio che, pur vincendo al 92’ con la Polonia, continua ad arrancare!

Sì, è vero, l’Italia non è la Spagna, la Francia, la Germania, né l’Inghilterra o la Svizzera. Non è l’Olanda, né la Grecia ma, allora, cos’è? È una pianta dalle radici profondissime ben salde nel suo grande passato, senza però più acqua con cui irrigarla, renderla nuovamente fertile o felix, come l’avrebbero definita i nostri padri latini, che si affida a vincoli esterni per esser governata, “protetta”, illudendosi di poter così fuggire il ripetersi di nuovi fascismi domestici, senza accorgersi che il fascismo può essere imposto anche dall’esterno se non ci si dota di anticorpi culturali che guariscano il malato dall’interno. Un malato finora totalmente incapace di auto-determinarsi, obbligato com’è a vendersi ai mercati per finanziarsi e sanare il debito che ha contratto con i propri cittadini nonché per garantire quel minimo di Welfare State che, nonostante tutto, ancora ci tiene miracolosamente a galla. Insomma, una prostituta nelle mani di “protettori” pronti a sfruttarla fino all’osso e poi buttarla via. Ma le cose non stanno proprio così. Troppo spesso, infatti, dimentichiamo che l’Italia in realtà è stata, resta e resterà pur sempre una magnifica, ribollente bocca di rosa che tutti ambiscono a conquistare, che tutti desiderano, ma nessuno lo dice. Anche solo per questo dovrebbe vendere a caro prezzo la propria pelle, facendosi ammirare, senza mai darsi. Porte aperte dunque, come fossero gambe pronte a nutrire il mondo con il parto di nuove civiltà, una società resiliente più che resistente, capace di includere per attrarre risorse, nuove leve per uno sviluppo condiviso con altri popoli. Per fare questo, tuttavia, ci vogliono regole, non leggi di mercato, né piegarsi al volere del dio spread, cara sinistra che nel dimenticare di dar la precedenza al popolo ti sei lasciata travolgere (sbrigativamente) da un TIR chiamato sovranismo, inaspettatamente giunto per sorpassarti a destra.

Nonostante tutto, il nostro Paese continua a essere l’espressione irriducibilmente multiculturale di un luogo che da sempre trasforma le invasioni in convivenza e le andate in ritorni a casa. Non è l’Italia, quindi, ad aver bisogno dell’Europa, ma l’Europa dell’Italia. Non è il Sud ad aver bisogno del Nord, ma il Nord del Sud. Non sono gli italiani ad aver bisogno dell’Italia, ma l’Italia degli italiani, un popolo senza patria che da secoli fa della necessità di non autodistruggersi l’unica virtù per poter ancora esistere, dandosi come singola regola di sopravvivenza la bellezza di saper essere al tempo stesso uno, nessuno e soprattutto centomila lingue, culture che continuano a trasformare un popolo fatto di popoli che necessitano solo di essere lasciati in pace, non premiati.

Prec.

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