Negli ultimi giorni si è parlato molto di intercettazioni e, in particolare, della volontà più volte espressa dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio di riformare la materia in senso più garantista, restringendo non solo le ipotesi in cui l’istituto delle intercettazioni può essere utilizzato, ma soprattutto sanzionando chi pubblica intercettazioni come strumento di delegittimazione personale e politica.
Nei suoi numerosi interventi sul tema, l’ex magistrato è partito da un dato di fatto: l’utilizzo di tale mezzo di ricerca della prova si colloca ben oltre la media europea, trasformandolo da mezzo a strumento di prova, anche se la sua ridotta utilità – basti pensare che lo stesso Ministro ha affermato che «mai una condanna è avvenuta sulla base di un’intercettazione» – non giustifica un simile abuso né il dispendio di risorse economiche che ne consegue. Ma c’è un dato ancora più preoccupante che viene messo in risalto: l’esistenza di un rapporto ambiguo tra procure e giornali permette spesso fughe di notizie che riguardano la vita privata di persone che a volte non sono neppure indagate e dunque la diffusione di informazioni che non sono di interesse comune, ma che possono essere utilizzate facilmente per screditare personaggi politici o per tornaconti propagandistici.
Le intercettazioni di cui parla il Guardasigilli non sono solo quelle telefoniche, ma anche quelle ambientali e cosiddette direzionali – che si effettuano servendosi di particolari microfoni – e quelle telematiche. Secondo la definizione che ne ha dato la Corte di Cassazione in una sua sentenza, si tratta dell’apprensione in tempo reale di una comunicazione in corso. In particolare, si tratta di quelle intercettazioni che Nordio stesso ha definito di recente giudiziarie, che vengono cioè autorizzate dal giudice per le indagini preliminari su richiesta del pubblico ministero. Sarebbero quelle per le quali, secondo la ricostruzione del Ministro, è più facile la fuga di notizie poiché la procedura passa per più uffici e quindi per più orecchie. Non può dirsi lo stesso per le intercettazioni che vengono svolte per i crimini contro la sicurezza dello Stato e per quelle cosiddette preventive, che vengono svolte come impulso alla ricerca della prova, in particolare per crimini molto gravi: in questi due casi, infatti, solo il pubblico ministero è responsabile della loro autorizzazione e gestione.
Sicuramente Carlo Nordio, complice la sua vita da magistrato, fa una ricostruzione della questione abbastanza semplicistica, descrivendo le intercettazioni come strumenti che vengono utilizzati sulla base di semplici sospetti. Così non è perché la responsabilità e la scelta delle stesse ricadono comunque sul giudice, che è tenuto a svolgere una valutazione di elementi concreti sulla fondatezza e l’utilità del mezzo di ricerca della prova. È pur vero, tuttavia, che negli ultimi anni l’uso è diventato abuso e questo è probabilmente da ricondurre alla continua caccia alle streghe che scatta nel nostro Paese, in cui semplici sospettati diventano in pochi minuti – anche per il tramite di televisione e giornali – indagati e condannati.
Purtroppo, in moltissimi casi media e tv influenzano lo svolgimento e le sorti dei processi, al punto che questi ultimi sembrano svolgersi molto più spesso nei salotti televisivi e non nelle aule di tribunale, lasciando che chiunque, anche senza le competenze adeguate, elargisca opinioni e commenti. Si tratta, invece, di un tema delicatissimo che va affrontato con molta attenzione poiché intreccia valori costituzionalmente tutelati: da un lato, il diritto alla riservatezza – che lo stesso Guardasigilli definisce «l’altra faccia della libertà» – e, dall’altro, il diritto di informare e la libertà di espressione. In tutte le riforme tentate in questi anni non è mai stato trovato un equilibrio tra questi valori e non è stato possibile contemperare l’efficacia delle indagini con la tutela delle persone indagate, evitando comunque le soluzioni che si risolvono in bavagli.
Quella che si propone è una revisione della materia che vieti le intercettazioni per i reati meno gravi, lasciando invece inalterata la normativa per i reati maggiori, come del resto specificato più volte sia da Nordio che dalla stessa Giorgia Meloni. Si tratta di un dibattito che torna a occupare l’opinione pubblica ciclicamente e di una riforma su cui chi vorrebbe evolvere la giustizia in senso garantista insiste costantemente. Eppure, critiche a tali proposte sono arrivate da tutti i fronti, complice anche l’arresto di Matteo Messina Denaro, sembra aver ridestato una rabbia collettiva sopita che pare rendere impossibile qualsiasi riflessione sull’universo penitenziario e/o della giustizia.
Molti hanno infatti usato in maniera pretestuosa l’arresto per ricordare che questo non sarebbe stato possibile senza l’utilizzo di intercettazioni e che dunque bisogna pensare bene alla riforma prospettata. In realtà è chiaro che essa non riguarderà mai simili fattispecie, ma voci polemiche si sono alzate anche da chi ritiene che l’uso del mezzo di ricerca della prova in reati meno gravi consenta spesso di raccogliere informazioni importanti per perseguire le piste di reati maggiori. C’è da dire, tuttavia, che continuare a utilizzare uno strumento che in quella circostanza risulta non rilevante solo perché si ha la speranza che possa essere più utile per altro, che magari neppure riusciamo a prevedere, non è coerente con un sistema giudiziario che dovrebbe perseguire trasparenza, oltre che economicità.
Altri hanno anche sottolineato, probabilmente a ragione, che forse il modo giusto per evitare tali temute situazioni sia intervenire non sulla possibilità o meno di svolgere intercettazioni, bensì sull’opportunità che queste vengano utilizzate e soprattutto diffuse, eventualmente attivando un controllo più capillare. Si era già tentato con la riforma Orlando di stralciare dall’archivio e dalla procedura di conservazione le conversazioni non rilevanti, stabilendo inoltre in contraddittorio con la difesa cosa andasse utilizzato a garanzia dell’indagato. Questa novità fu però eliminata dalla normativa da Bonafede poco prima dell’entrata in vigore della riforma.
Addirittura, all’interno della stessa maggioranza alcuni hanno preso di mira Nordio, primo tra tutti Matteo Salvini, che ha affermato di dover assolutamente evitare scontri con la magistratura. Proprio lui che l’estate scorsa si è fatto strenuo promotore di una battaglia senza precedenti contro i giudici e il pericolo della loro politicizzazione con un referendum che sarebbe poco definire fallimentare. Ma a quanto pare le idee cambiano e soprattutto cambiano le propagande, con le elezioni regionali che si avvicinano in Lazio e Lombardia.
Al netto di quanto appena detto, però, bisogna precisare che fino a ora si è trattato di sole parole, cui non sappiamo se e quando farà seguito una proposta di legge concreta che possa essere analizzata. Carlo Nordio si dice certo che si interverrà nella misura da lui prospettata. Noi guardando alla compagine politica a cui appartiene, per nulla garantista, possiamo dirci meno sicuri di quello che verrà, in tutti i sensi.