Una delle frasi più ricorrenti nel mondo della scrittura, di quelle che si ripetono ogniqualvolta un aspirante romanziere siede alla scrivania pronto a mettere nero su bianco la storia che gli ronza in testa, rimandata continuamente da editori, novellisti, dagli insegnanti durante corsi e laboratori creativi è: non scrivere della tua vita, non interessa a nessuno. Non commettere l’errore di pensare che ciò che ti accade sia più interessante – e dunque degno di finire in un libro – di quanto non accada a chiunque altro. Dopo aver letto Noi non abbiamo colpa di Marta Zura-Puntaroni (edito da Minimum Fax) possiamo – finalmente! – affermare che non è sempre così.
Il secondo romanzo della scrittrice originaria delle Marche, che ora vive e lavora a Siena, è, infatti, uno spaccato di esistenza quotidiana, un quadro a tratti delicati, altri drammatici, della vita della protagonista e della sua famiglia, di Marta, sua madre Antea e la nonna Carlantonia, una storia semplice, comune, eppure così caratterizzata da risultare unica e, pertanto, interessante. È vita di paese, un borgo reduce dal terremoto del centro Italia; vita familiare, dove c’è chi va via ma il paese te lo porti dentro anche nella grande città, tanto da fare amicizia soltanto con i vecchi del palazzo o il tabaccaio, alla ricerca della familiarità; è il tornare, ritrovare, lì dove nulla di bello è fatto per durare.
È un gioco di ruolo Noi non abbiamo colpa, anzi, di ruoli che confliggono, che inevitabilmente si invertono, quelli su cui ci si interroga lungo l’intero percorso di crescita cercando di capire quale sarà il proprio punto d’arrivo, il rapporto madre-figlia che cambia nel bisogno che l’una scopre nell’altra, nella presa di coscienza che anche una mamma non è invincibile. Uno crede che diventare adulti significhi imparare a badare a se stessi, invece, in Noi non abbiamo colpa – come nella vita – si traduce nell’imparare a badare agli altri.
E poi c’è Carlantonia, la nonna, protagonista del testo al pari di Marta, persino più preponderante, più intensa nel voler dominare la scena, il personaggio meno letterario della famiglia – come l’autrice ha dichiarato in un’intervista a Rai Letteratura – che si scopre, invece, perfetta tra le pagine di un romanzo, forte delle caratteristiche principali che ogni buona storia deve avere: grazia e coraggio, che esprime in tutta la loro potenza nella resa che cede pur senza rendersene conto alla malattia, l’alzheimer. La figura di Carlantonia crea empatia proprio perché quella grazia sembra non cercarla mai, come quando passa per le vie del paese, in macchina con la nipote, e guarda i nomi sui necrologi ed elencava tutti coloro che avevano la sua età, o erano ancora più giovani, ed erano morti negli ultimi giorni. […] Nonna riassumeva in poche parole la vita di quei coetanei seppelliti recentemente con una soddisfazione appena dissimulata. Ad ogni anche questo è morto, poverino, la voce tradiva una punta di brio, una malcelata gioia come di rivincita. Quello è morto, diceva la voce, e io sono ancora qui, nonostante tutto.
Motivo per cui sei come tua nonna diventa, per Marta, la peggior cosa da sentirsi dire, un presupposto a dimostrare il contrario – tristi in ogni manifestazione, sotto ogni punto di vista, e vivere la vita senza alcuna capacità di apprezzarne le gioie, piccole o grandi che siano –, con la donna capace di allontanare qualunque badante provi a prendersene cura, salvo, nel finale, rivelarsi ai tormenti della nipote come uno spirito capace di riportare in vita chi non c’è più, di stravolgere il tempo e lo spazio.
Il testo si presenta come un flusso di coscienza che, a tratti, sembra mutare in un flusso d’angoscia per la sorte dei propri cari, per affermare che Noi non abbiamo colpa, quasi per convincersene, cercando di scacciare l’idea che, in fondo, ognuno possa fare di più, cercando di sfuggire a quelle domande che Marta non riesce a evitare.
Quale futuro auguro a me, ai miei? Il rimpianto per la scomparsa prematura – mio nonno Renato, quante cose belle avremmo ancora potuto fare assieme, quante cose di me che diventavo adulta avrebbero potuto farlo felice, fiero – o vedere tutto il peggio, sino a scordarsi tutti i momenti buoni, tutto quello che c’è stato, tutta la loro storia?
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