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“Napoli. Contro il panorama”. Voltare lo sguardo al mare per immaginare il futuro

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
11 Giugno 2022
in Billy
Tempo di lettura: 5 minuti
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Cosa vi suggerisce l’immaginazione quando pensate di passeggiare tra le strade di Napoli? Il panorama. Napoli, in qualunque rappresentazione turistica, cinematografica, o anche semplicemente cittadina, urbana, appare come una cartolina che affaccia sul mare, con il Castel dell’Ovo al centro di questo quadro meraviglioso e le isole di Ischia, Procida e Capri a fare da cornice a una delle vedute più belle del mondo.

Non è sempre facile, anche per chi è di Napoli, riconoscere i luoghi. Il saggio della fotografa Giovanna Silva e della studiosa di politiche urbane Lucia Tozzi intitolato Napoli. Contro il panorama (nottetempo) si apre con questa riflessione, un invito a voltare le spalle al mare e osservare la città da una prospettiva opposta a quella consueta, portando lo sguardo tra le vie del centro fino alle periferie. Un gioco apparentemente semplice, eppure per certi versi drammatico via via che si entra nel vivo, un gioco che alla meraviglia sostituisce, ben presto, una crudele presa di coscienza. 

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Partendo dal dopoguerra, Giovanna Silva e Lucia Tozzi riflettono sugli interventi pubblici che hanno cambiato il volto del capoluogo campano, interrogandosi – con invidiabile ottimismo – sulle opportunità ancora inespresse di quella che si rivelerà tutt’altro che una città delle meraviglie. 

L’indagine comincia all’inizio del Novecento, quando Napoli era interessata da grandi investimenti che avevano riempito la città del Vesuvio di nuove sedi universitarie, ospedali, edifici civili e soprattutto moltissime case popolari, più di 80.000 alloggi, molti di qualità, della cui esistenza pochissimi sono consapevoli. Costruire, però, significò spazzare via grandi distese naturali. Se la condizione per costruire è produrre più rendita, allora campi, alberi, abitanti, leggi e piani diventano ostacoli che vanno rimossi o aggirati. Com’è facile intuire dalla ricostruzione offerta dalle autrici – qualcosa già di piuttosto chiaro a chiunque viva a Napoli e soprattutto vi abbia vissuto in quegli anni – l’edilizia pubblica era pensata prima di tutto come cavallo di Troia per la speculazione. I nuovi quartieri, a danno dei futuri abitanti, venivano collocati il più lontano possibile dal tessuto urbano per legittimare l’urbanizzazione delle aree intermedie, il che portò alla creazione di quartieri ghetto, terreno fertile soltanto per la criminalità organizzata. Ma questo è un altro aspetto della storia che non interessa l’analisi del libro.

Lo studio si sposta, poi, attraverso gli anni Settanta e la lente d’ingrandimento di Silva e Tozzi osserva che i danni prodotti dalla precoce deindustrializzazione napoletana, avviata prima che si riuscisse a consolidare una reale cultura industriale, sono incalcolabili. Sono gli anni dei grandi complessi 167 di Ponticelli e delle Vele di Scampia, della Tangenziale e del Centro Direzionale, una serie di orrori oggi inclusi nei tour “Napoli brutalista” o nei popolarissimi video musicali della musica trap partenopea, che non hanno fatto altro che deturpare il volto della città, e incidere in maniera drammatica sul suo tessuto sociale. Dopo di che, a Napoli non si è più costruito nulla sopra terra.

L’opera pubblica napoletana si è concentrata, dagli anni Ottanta in avanti, e in particolar modo per ciò che ha caratterizzato la sindacatura di Antonio Bassolino, sulla metropolitana, un lavoro di proporzioni notevoli che ha tenuto, però, la città ostaggio di cantieri sempre in bella vista, tanto da diventare oggetto dei migliori repertori di qualsiasi comico partenopeo. La grandiosità dell’opera pubblica realizzata rappresenta un’opportunità di salvezza – ecco che torna l’ottimismo delle autrici – perché impone con più urgenza alla politica la necessità di ripristinarne il pieno funzionamento. Il punto sta proprio nel “quando” o “se” qualcuno se ne renderà conto, o meglio deciderà di fare qualcosa in merito.

Da allora, la città è stata totalmente esclusa da quei grandi processi di “rigenerazione” che hanno caratterizzato lo sviluppo urbano dell’ultimo trentennio. Tradotto: opportunità di sviluppo mancate, scarsa visione dell’utilizzo degli spazi urbani ed extraurbani.

Il 1995 ha segnato una tappa fondamentale nella storia del capoluogo campano.  L’inclusione del centro storico di Napoli nel patrimonio Unesco ha reinserito la città a pieno titolo tra le tappe imperdibili del Grand Tour contemporaneo. E se da un lato questo evento ha significato per Napoli la possibilità di riguadagnarsi una vetrina mondiale di primo livello, con il dilagare del turismo, cresciuto in maniera spaventosa, in particolar modo negli anni dell’amministrazione de Magistris – non indagata a fondo dalle autrici – è altrettanto inequivocabile che il turismo abbia rappresentato un’industria più pesante delle acciaierie, che innesca processi quasi irreversibili di trasformazione urbana sostituendo le abitazioni con b&b, i negozi di quartiere con pizzerie e bar, il lavoro salariato con un precariato selvaggio, e alimentando la gentrificazione e l’espulsione degli abitanti poveri dal centro.

Quella delle città vendute ad Airbnb (come Venezia, Firenze o Parigi) è però un’economia fragilissima, esposta a crisi imprevedibili, di cui già anche Napoli sta cominciando a riconoscere i primi – per fortuna ancora contenutissimi – effetti, con la narrazione che si fa della città già cambiata rispetto a qualche anno addietro. 

Napoli ci è dentro fino al collo, ma la testa è ancora fuori dall’acqua. Secondo Giovanna Silva e Lucia Tozzi, tale affermazione non vale esclusivamente per il turismo ma anche per le terre incolte di cui sopra, delle occasioni mancate di sviluppo, tutto quanto a Napoli è rimasto immobile e oggi si presenta come una nuova opportunità, come nel caso dei parchi di piante selvagge sorte a San Giovanni o a Pianura, da non abbattere – dicono – ma da gestire e rendere accessibile.

Bagnoli potrebbe diventare per Napoli quello che l’ex aeroporto di Tempelhof è stato per Berlino: un’enorme area pubblica accessibile subito, senza la mediazione di bonifiche superflue, appalti, concorsi, lavori, sviluppatori, banche, fondi stranieri, comunicatori. […] Napoli potrebbe liberarsi del pittoresco e cercare di fermare l’emorragia di abitanti che stanno scappando a gambe levate da una città dove possono lavorare solo come camerieri o affittacamere. Potrebbe attirarli per mezzo di una gamma di nuovi desideri meno banali di un’apericena di lusso sul mare. 

Il paragone conclusivo che fotografa Napoli come protagonista di film di fantascienza è quantomai azzeccato, perché è vero, a Napoli tutto è così; esagerato, talvolta mistico, inverosimile. In genere gli ibernati si trovano coinvolti in una grande quantità di disavventure in contesti distopici ma alle volte riescono a cambiare il corso della storia. 

E chissà che qualcuno, o qualche nuovo epocale evento, non intervenga a fare dell’immobilismo partenopeo un vantaggio per una Napoli che sappia guardare al futuro. Scorrendo la storia dello sviluppo urbanistico e infrastrutturale della città – la stessa che questo saggio analizza molto dettagliatamente – però, chi scrive non riesce a trovare motivi per essere altrettanto fiducioso. È una considerazione cruda – certo! – ed è forse per questo che a Napoli voltiamo lo sguardo sempre dal solito lato, verso Occidente, tra le onde di quel panorama meraviglioso che si perde nel mare e ci illude, e ci coccola.

Prec.

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