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Medicina di genere: anche la scienza sa discriminare

Chiara Barbati di Chiara Barbati
30 Marzo 2023
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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A scuola, ci insegnano che la scienza è inequivocabilmente oggettiva. Che può sbagliare, che le nuove teorie possono confutare le precedenti e che la tecnologia in costante evoluzione rende credibili cose prima inverosimili. Ma, al netto di tutti gli errori e le evoluzioni, la scienza resta scienza. Obiettiva, sincera, priva di pregiudizi. La scienza non può discriminare. Ebbene, non è così. Anche la ricerca scientifica alla scoperta dei più nobili obiettivi può essere filtrata da teorie di partenza basate su un pregiudizio, e addirittura anche il metodo scientifico può essere inquinato dai bias. Anche la scienza sa discriminare e il primo ambito in cui lo fa è la medicina di genere.

Meglio chiamata come medicina genere-specifica, è spiegata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come lo studio delle influenze biologiche, dunque definite dal sesso, sullo stato di salute delle persone. Si tratta di un tema molto recente, perché è solo da pochi anni che è iniziato lo studio delle sostanziali differenze nell’insorgenza e nella progressione clinica delle malattie tra uomini e donne, e anche nella risposta ai trattamenti terapeutici.

In parole povere, ci sono delle differenze nel modo in cui le malattie si manifestano e nel modo in cui i farmaci agiscono, ci sono effetti indesiderati e conseguenze diverse nei trattamenti, tra corpi maschili e corpi femminili. Differenze che dipendono da fattori genetici, epigenetici, ormonali e ambientali. Differenze di cui sappiamo poco e nulla finché i farmaci non vengono somministrati perché la sperimentazione è fatta quasi esclusivamente sugli uomini.

Dei farmaci e delle terapie comunemente destinati sia agli uomini sia alle donne, l’80% dei soggetti che partecipano alla sperimentazione è composto da uomini. In sostanza, le sperimentazioni tengono in considerazione per la maggior parte le caratteristiche e le reazioni tipiche del corpo maschile, escludendo di fatto le peculiarità femminili. Gli stessi dati spiegano che solo il 50% degli studi clinici prende in considerazione le peculiarità di genere nella condizione su cui si basano le ricerche e che solo una ricerca su tre riporta dati accurati a riguardo. Insomma, l’universo femminile, anche quello biologico, è estremamente sottorappresentato nella ricerca scientifica e medica, per motivi facili da immaginare, e con conseguenze non scontate, che si riversano nella vita di tutte le donne.

L’attenzione alla medicina di genere è comparsa solo di recente, dicevamo, e con essa la convinzione che il motivo per cui si tende a tralasciare il coinvolgimento delle donne all’interno dei trial dipenda dall’obiettivo di non comprometterne la fertilità. Tralasciamo il fatto che limitarsi a questa come unica tutela prevista nei confronti delle pazienti, che rischiano di avere effetti avversi o di vedersi somministrati farmaci non efficaci per le loro caratteristiche biologiche, perché salvaguardarne la fertilità è più importante che tutelarne la salute, è già estremamente indicativo riguardo le priorità della nostra società. Ma dietro questa motivazione, c’è in realtà di più.

Da un lato, infatti, come ogni campo di ricerca scientifica e non, anche la medicina è stata, per millenni, androcentrica. Del punto di vista femminile è sempre importato poco e anche riguardo la salute delle donne non è che ci sia mai stato tutto questo interesse. La medicina di genere o, meglio, specializzata sull’universo biologico femminile, si è sempre fermata alla riproduzione. D’altro canto, poi, e questa problematica è comune anche oggi che di medicina di genere si parla di più, inserire le donne nei trial significa fare un lavoro più difficile.

Dei soggetti con corpo femminile bisogna tenere conto anche dell’età, dei fattori ormonali, della menopausa e, chiaramente, di eventuali gravidanze. Significa non studiare due gruppi di pazienti, gli uomini e le donne, ma allargare la ricerca a una quantità molto più grande di sottogruppi, con annesse variabili. Insomma, molto più semplice non considerare questi fattori, non includere questi soggetti nella ricerca, invece di rendere i trial, e quindi anche la medicina, più inclusivi.

C’è anche da dire che la medicina e, in generale, la scienza, sono sempre state cose da uomini. Se prima solo gli uomini potevano studiarle, e oggi in gran parte gli uomini frequentano facoltà scientifiche, è chiaro che riguardo le esigenze femminili si avessero – e si abbiano tuttora – le idee poco chiare. Non è un caso, allora, che tante patologie legate alla sfera femminile si stiano scoprendo solo adesso, che endometriosi e vulvodinie varie ancora non trovino ricerche scientifiche approfondite o troppi medici preparati per, non dico trattarle, ma per lo meno riconoscerle. Perché la scienza medica è stata fatta dagli uomini, e oggi è ancora fatta per gli uomini. Perché solo perché è scienza non vuol dire che non sia di parte.

Il medico e antropologo Cesare Lombroso, verso la fine dell’Ottocento, teorizzava, con una teoria scientifica studiata per anni, che la popolazione che abitava l’Italia meridionale fosse biologicamente inferiore. Sosteneva, con le sue ricerche antropologiche, gli studi criminologi e la preparazione sociologica, che la conformazione fisica dei meridionali corrispondesse ad alcuni tratti caratteriali criminali e che alcuni dettagli fisiologici corrispondessero a un’intelligenza inferiore. Ecco, Lombroso è la prova che la scienza, solo perché è scienza, non è necessariamente obiettiva. Che anche il metodo scientifico può essere contaminato dagli stereotipi, dalla struttura preimpostata della società. Allo stesso modo, la medicina gira intorno agli uomini, e finché i trial saranno condotti su soggetti per l’80% maschili, se è sin dalla base della ricerca e della teoria scientifica che si costruiscono le cure a misura di uomo, quale obiettività scientifica resta alle donne?

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