Appena pochi giorni fa, analizzando il XIX Rapporto di Antigone, parlavamo del reato di tortura e delle violenze istituzionali, oltre che del loro utilizzo come strumento di potere nei confronti di persone che vivono nella marginalità. Avremmo voluto sbagliarci e invece, anche stavolta, i fatti ci stanno dando ragione con quanto sta emergendo nei confronti dei cinque agenti in servizio nella questura di Verona, accusati di tortura e lesioni, oltre che di falso e omissioni d’atto d’ufficio, e per questo attualmente agli arresti domiciliari.
Nell’ambiente delle indagini si parlerebbe in questi casi di serendipità, trattandosi di fatti emersi mentre si stava indagando su altro: infatti, il primo degli agenti coinvolti era stato sottoposto a intercettazioni poiché non era parso chiaro il modo in cui aveva gestito una perquisizione e poi nel corso delle telefonate con la propria fidanzata sarebbero emersi i casi di violenza ai danni di persone sottoposte a controlli e fermi presso la questura, in particolare stranieri, tossicodipendenti e senza fissa dimora. Persone dunque che difficilmente avrebbero trovato il modo di denunciare. E, infatti, l’indagine è partita dall’interno, abbattendo in piccola parte quel muro di omertà e bugie diffuso in tali ambienti, e questo può essere considerato un piccolo passo in avanti rispetto al passato.
Non a caso, sono rimasti coinvolti molti altri agenti in servizio a Verona perché, pur essendo a conoscenza dei fatti, non li avrebbero né impediti né denunciati. Violenze, pestaggi, umiliazioni, insulti e minacce senza alcun motivo – non che possa essercene uno lontanamente valido – ma per il semplice gusto di sentirsi potenti e di potersene vantare o riderne con amici e colleghi.
Che pigna gli ho dato, io ridevo come un pazzo, entro dentro e vedi cosa ti faccio: questi sono solo alcuni dei particolari che emergono, oltre a tantissimi insulti a sfondo razziale. Persone spesso giovanissime che non hanno alcun diritto di rappresentare lo Stato e le istituzioni e di giovarsi di tale potere. Eppure non possiamo ancora rincorrere la narrazione delle mele marce, di singoli individui che non rappresentano alcunché, data la sistematicità e la frequenza con cui simili casi emergono. Basti pensare che in soli pochi mesi di indagini sono venuti alla luce sette casi di violenze e chissà quanti sono invece rimasti sotterrati sotto un tappeto che nessuno ha il coraggio di sollevare del tutto.
L’ho rimesso al suo posto: anche questa è una delle tante frasi emerse dai racconti dell’agente e non ho potuto fare a meno di pensare a quell’ordine ripristinato a cui governo e istituzioni si appellarono quando iniziarono a circolare le prime notizie riguardanti le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’idea alla base è sempre quella per cui c’è qualcuno da ammansire, da sottomettere, da obbligare al giogo.
È davvero questo lo Stato che vogliamo e che siamo ormai diventati? Quello in cui bisogna avere paura di essere fermati per un controllo, soprattutto se si è poveri, stranieri, tossicodipendenti, se non si ha alcun potere nella società capitalistica? Si dovrebbero rovesciare le gerarchie, smetterla di affrontare tutto con la repressione e smetterla di negare simili abusi, iniziando ad affrontarli come la questione sistemica che rappresentano.
Il nostro Paese ha un problema non solo nell’utilizzo della violenza da parte di chi lo rappresenta, ma ancor più latamente un problema nell’attribuire potere eccessivo alle forze dell’ordine, difendendo il loro operato allo strenuo. Lungi da noi sminuirne l’importanza, ma bisogna rivedere radicalmente tali meccanismi che non fanno che creare umiliazioni e abusi. Chi potrebbe mai fidarsi di essere nelle mani di uno Stato così?