Non vi saranno sfuggite le immagini diffuse negli ultimi giorni in merito al pestaggio avvenuto ai danni di una donna trans nei pressi dell’Università Bocconi di Milano da parte di tre agenti della polizia municipale. Al video che mostra la brutalità dell’aggressione, hanno fatto seguito ricostruzioni forzate e una strenua difesa del sindacato SULP, che ha diffuso una versione dei fatti – confermata inizialmente dall’Assessore alla Sicurezza Granelli – in base alla quale la donna stava importunando alunni e genitori di una scuola poco lontana. La ricostruzione è stata poi smentita e ha assunto tutt’altri contorni, mentre gli agenti, distaccati ai servizi interni, intanto sono stati denunciati per tortura, che, in base alla querela presentata, sarebbe aggravata dagli elementi della discriminazione e dall’abuso di potere. Al di là degli accertamenti che seguiranno, nessun fatto né premessa può giustificare gli abusi perpetrati, anche quando la donna era ormai inerme.
E, ancora, un carabiniere ha sferrato un calcio in pieno volto a un ragazzo arrestato per furto a Livorno, quando era già a terra trattenuto da altri due colleghi per le gambe e il collo. Anche in questo caso, qualunque sia stata la condotta che ha preceduto il fatto, si tratta sicuramente di un uso sproporzionato della forza pubblica. Eppure, sono immagini che non ci stupiscono perché sono sempre più frequenti simili aggressioni da parte di chi rappresenta le istituzioni e dovrebbe tutelare i cittadini, in particolare quelli più vulnerabili.
Sicuramente questi episodi non sono disincentivati dal clima politico in cui viviamo, di repressione e inasprimento delle pene. Basti pensare alla proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia per l’abrogazione del reato di tortura per permettere, dicono i suoi sostenitori, alle forze dell’ordine di svolgere il loro lavoro liberamente e senza paura. E di cosa dovrebbero mai avere paura se rappresentano le istituzioni con giustizia e proporzione? Di fatto si tratta di legittimare gli abusi e le violenze perpetrate nei luoghi di reclusione, nelle caserme, nelle manifestazioni, per strada. In molte più delle situazioni che si vedono, o che noi riusciamo a immaginare, spesso nascoste per paura di ripercussioni o per mancanza di fiducia nello Stato e nella sua giustizia.
Questi sono anche alcuni dei temi posti al centro del XIX Rapporto dell’Associazione Antigone presentato pochi giorni fa, che ha un titolo emblematico: È vietata la tortura. Si parte proprio dalla provocatoria proposta di legge avanzata da FdI e dalle solite argomentazioni becere della destra per affermare forte e chiaro che se in Italia c’è stato il riconoscimento di una simile fattispecie di reato – seppur con ritardo – è perché il nostro Paese ha dei precisi obblighi internazionali a cui non può sottrarsi.
Oltre alle torture emerse in carcere, per cui sono attualmente avviati 13 processi – in alcuni dei quali Antigone si è anche costituita parte civile – il Rapporto offre interessanti spunti sull’utilizzo della repressione e della violenza nei confronti di alcune categorie di individui, i cosiddetti marginali. Si tratta di coloro che vivono un disagio e attentano al “decoro” delle città, cui si risponde non con prevenzione e presa in carico, bensì con esclusione e abusi.
Non bisogna dimenticare inoltre che quanto emerge in merito alla situazione negli istituti di pena non è altro che un’immediata conseguenza di come questi (non) luoghi vengono concepiti nella mentalità comune, ma soprattutto dalla rappresentanza politica. Angoli in cui relegare tutto ciò che non si vuole vedere e tutti coloro di cui non ci si vuole preoccupare perché non sono individui che rispondono agli standard di produttività ed efficacia della nostra società capitalistica.
Le violenze istituzionali sono rappresentazione di un disagio che oramai trapassa quelle imponenti mura, tanto è il suo peso. O che almeno dovrebbe trapassarle se però tutti non fossero occupati a voltarsi dall’altra parte. Gli istituti di pena italiani sono tra i peggiori in Europa, i più affollati, e preceduti solo da Romania e Cipro. Più di 56mila persone che vivono stipate in condizioni disumane e sopportando umiliazioni quotidiane non giustificate da alcun fine che il nostro ordinamento assegna all’espiazione della pena.
Questa non solo dovrebbe tendere alla rieducazione – che strano pensare che una società come la nostra sia davvero in grado di educare nuovamente qualcuno – ma soprattutto non dovrebbe comportare alcuna violazione ulteriore di diritti se non quella legata alla mera privazione della libertà, e tutto ciò che a essa naturalmente consegue, in termini di distanza da affetti e spazi sociali.