Lasciarsi cadere di Lidia Yuknavitch non è un memoir, è un romanzo. Ma ci sono memoir che non sono memoir, e romanzi che invece lo sono. Non è uno scioglilingua, è l’unico modo di raccontare una storia di finzione che accade a persone reali.
Ho inventato centinaia di io. Uomini e donne. Ho popolato di fantasie il corpus della mia esistenza. Chi lo dice che loro non sono io? Io loro? […] Ogni io è un romanzo in fieri. Ogni romanzo una bugia che nasconde l’io. Questa, lettrici e lettori, è una storia madre-figlia.
C’è una bambina, del tutto inventata. C’è la guerra, non proprio inventata. Ci sono le bombe, per niente inventate. Siamo a Est, in un luogo imprecisato in mezzo a uno scontro bellico imprecisato e una bomba cade su un edificio. La bambina è fuori, in giardino, ma la sua famiglia è dentro la casa: in un attimo è orfana.
Una fotografa americana è lì e coglie l’esatto momento dell’esplosione. La bambina in primo piano con le mani al volto e un urlo che le muore in gola. Come tutti i fotoreporter di guerra che si aggirano tra le macerie, ruba un istante di disperazione. A lei varrà premi, riconoscimenti ed encomi. Alla bambina non varrà nulla.
La bambina scappa nel bosco, da sola. Nessuno si premura di aiutarla, nemmeno la fotoreporter. La scrittura di Yuknavitch è così evocativa che, nonostante stia leggendo queste pagine sotto il sole pugliese di luglio, dimentico tutto e mi ritrovo con lì, tra i boschi della Lituania, col freddo che mi entra nelle ossa.
Alla quarta pagina del libro, però, appare una scrittrice. Non c’entra nulla con la bambina, vive in California e si presenta ai lettori. Parla in prima persona, interrompe il carosello di orrore, violenze e neve per snocciolare un lungo elenco di cose che è stata.
Sono stata un’altra molte volte. Sono stata una nuotatrice agonistica per diciotto anni. Sono stata una segretaria in uno studio legale per un anno e mezzo. Sono stata una cameriera per otto giorni. Sono stata un’eroinomane per sei anni. […] Sono stata madre la prima volta per nove mesi, solo nove, poi madre di una bambina morta. Ora sono madre di un figlio. Bambino strano e vivo.
L’elenco continua e io non posso fare a meno di correre su Wikipedia. Cerco l’autrice del romanzo, voglio sapere se è lei che mi si sta presentando senza preavviso: non ho letto il suo memoir – quello vero, La cronologia dell’acqua – e non ne ho idea. Scopro che è tutto reale, dalle violenze sessuali del padre all’aborto, dagli arresti alla tossicodipendenza.
Sono veri (o quasi) anche gli altri personaggi, quelli che ruotano attorno alla scrittrice: un marito regista, un fratello sceneggiatore, un’amica poetessa, un ex marito pittore. Scopro il primo segreto di questo libro: Yuknavitch ha inventato una fan-fiction sulla sua vita, usando se stessa, amici e amanti come co-protagonisti di una storia inventata.
Uno dei personaggi è una ex amante fotoreporter di guerra. Sì, la stessa fotoreporter che ha rubato lo scatto di quella bambina dell’Est, di quella casa che esplode. È lei che ha ricevuto un premio importante, ma intriso di sangue. È lei a portare la scrittrice a un’ossessione verso la bambina della foto, anche se non l’ha mai conosciuta.
La scrittrice vuole lasciarsi morire. Smette di mangiare, di parlare, di agire. Tutto a causa di quella foto. Mi ricorda il video di Just dei Radiohead. Un uomo in cravatta e completo grigio si accascia sul marciapiede, senza motivo. Non ha un malore, non è ubriaco: smette semplicemente di muoversi. Tutti i passanti si fermano, chiedendogli cos’ha. E lui nulla, si rifiuta di dirlo. Come la scrittrice/Yuknavitch, che ai suoi amici artisti non dà alcuna risposta.
Nel video di Just l’uomo rivela il perché si è steso, ma noi spettatori non riusciamo a capire ciò che dice: sappiamo solo che dopo aver ascoltato le sue parole, tutti i passanti – uomini d’affari, casalinghe, poliziotti – si stendono a terra con lui.
Sarebbe bello se lo facessimo tutti. Tutto il pianeta fermo, rannicchiato su un letto o sul pavimento. Forse le cose andrebbero meglio. Forse dovremmo semplicemente smettere di fare – di lavorare, di votare, di produrre e consumare – per migliorare il nostro mondo. Almeno, si incepperebbe la macchina che permette al dolore che ci circonda di esistere.
Avrei voluto che accadesse, almeno in questo libro. Che la scrittrice/Yuknavitch mostrasse la foto ai suoi amici artisti e di fronte al dolore della bambina anche loro cadessero in stato catatonico. Invece, le cose vanno molto diversamente: gli amici della scrittrice scoprono la fonte del suo male e decidono di partire in missione per salvare la bambina.
Cominciamo a sapere di più di questi personaggi: il pittore dipinge coi fluidi corporei che ottiene masturbandosi e tagliandosi le vene, la poetessa si lancia in orge lesbo-BDSM e scrive versi (banali) sui cuscini col sangue delle sue amanti, lo sceneggiatore si compiace del suo cinismo nel rubare attimi di dolore nell’ospedale dove sua sorella giace catatonica.
Ognuno di loro è narcisista, autoreferenziale e pretenzioso fino al midollo. Ma, attenzione, l’autrice non sembra volerli prendere in giro né mirare a dimostrare la superficialità e l’inutilità degli artisti contemporanei americani di fronte all’orrore della guerra. La scrittura non è per nulla ironica nei loro confronti e, anzi, tutto comincia a ruotare attorno ai nostri eroi/salvatori/artisti.
Man mano, la storia della bambina si fa sempre più marginale: incontra una vedova, la loro relazione sembra vera, viva e dilaniante, ma non ha spazio di respiro. Tutto il mondo delle due – la loro perdita e i loro piccoli tentativi di ricreare casa – passa in secondo piano rispetto al tentativo di salvataggio da parte degli artisti.
Yuknavitch sembra voler comunicare che l’arte – in particolare la loro – possa persino salvare un essere umano. Però, questo non è mai successo. La Yuknavitch non ha salvato nessuna bambina dell’Est portandola in California e crescendola a pane e arte. Ha solo scritto una fan-fiction sulla sua vita in cui lei – e tutti i suoi amanti, ex amanti, amici e parenti – l’ha fatto.
Il risultato è fortemente indulgente e autocelebrativo. Tranquilli, arrivano gli americani – white saviors per eccellenza – a tirar fuori la bambina dall’orrore. Ma la Yuknavitch è consapevole di questo discorso e mette in bocca la polemica a un personaggio dell’Est: “Capisco. L’ennesima americana che salva i bambini dai pericoli del mondo e li porta al sicuro. Che magnifica generosità. Proprio come le star dei vostri film, no? Il potere dell’amore… americano”.
Yuknavitch non è una sprovveduta e dimostra di essere consapevole delle apparenze. Continua però per la sua strada, con uno scopo soltanto: non quello di celebrare se stessa, i suoi amici o l’America, ma il potere salvifico dell’arte. Ma tutta l’arte è davvero salvifica? Basta che sia bella – ben scritta, ben costruita, ben dipinta – perché abbia un impatto sociale?
Da quanto tempo va avanti la guerra in Ucraina? Non lo sappiamo più. Non ci interessa più. L’orrore e la paura dei primi mesi sono andati scemando e ci siamo assuefatti al dolore e alle bombe. Non siamo cattivi, siamo umani: l’esposizione costante a una comunicazione bombardante e militarizzata (quella di telegiornali, social e radio) ci anestetizza. A un certo punto, ogni guerra diventa una delle tante.
Vivere anestetizzati, però, non ci fa bene. Serve la sofferenza per togliere la mano dal fuoco. Cosa vuol dire? Che quando ci scottiamo, impariamo che quella cosa brucia e non lasciamo che i nostri arti si carbonizzino perché anestetizzati. L’arte deve servire a questo: svegliarci dall’anestesia, essere un campanello d’allarme. Come scriveva un caro amico, l’arte deve aumentare a dismisura la nostra sensibilità, esponendoci alla tragedia, al dolore, e alle fragilità umane, dell’ambiente, della biosfera, delle città e dei territori.
Cosa che la Yuknavitch fa eccome. Almeno, nella prima metà del romanzo. Il dolore della bambina – così crudo, scorretto, animale – mi ha svegliata. Ho ripensato a un paese che stavo dimenticando, a una tragedia a cui non pensavo più. Sono bastate poche pagine, molto più efficaci di un’edizione straordinaria a ora di pranzo.
E, poi, tutto finisce. La storia della bambina sparisce. Si smette di sentire il dolore. Per tutto il restante del libro, l’arte (il romanzo) si concentra solo su altra arte (quella dei co-protagonisti). L’arte guarda se stessa e non alla realtà. Non mi fa provare più nulla. La connessione emotiva si spezza, il campanello d’allarme si rompe. No, non basta che l’arte sia bella – ben scritta, ben costruita, ben dipinta – perché abbia un impatto sociale: deve farci togliere la mano dal fuoco.