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La Napoli (e il rione) di Elena Ferrante

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
8 Giugno 2021
in Billy
Tempo di lettura: 3 minuti
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Che strana la sorte della nostra città. Così eclettica, multiforme, così uguale e diversa da se stessa di quartiere in quartiere. Napoli bacino di cultura e di culture, porto delle più ricche influenze provenienti da tutto il mondo, tanto complessa quanto identitaria. Eppure, la letteratura, soprattutto degli ultimi anni, pare non riesca a collocarla al di fuori di un duplice stereotipo, una doppia cornice che la costringe al lungomare di Posillipo da un lato, alle Vele di Gomorra dall’altro. È forse anche questo il segreto del successo dei romanzi di Elena Ferrante, della quadrilogia de L’amica geniale, aver spezzato la continuità di questa fastidiosa combinazione. Il mare, dal Rione, infatti, è solo un miraggio al di là del ponte.

I romanzi dell’autrice avvolta nel mistero della propria identità sono, probabilmente, il caso letterario più importante che abbia sconvolto l’editoria italiana e, soprattutto, partenopea, da tempi più o meno recenti. L’eco dei racconti delle avventure che vedono protagoniste due amiche, due bambine, due ragazzine, due donne, insieme lungo il cammino della crescita, è rimbalzata ovunque nel mondo, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tanto da spingere la redazione del Time a inserire il nome della scrittrice tra quelli dei cento personaggi più influenti del globo nel 2016 e invogliare centinaia di turisti a sbarcare alle falde del Vesuvio per scoprire i luoghi della narrazione.

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Ma, appunto, la Napoli di Elena Ferrante non è quella elegante e snob del quartiere Vomero, neppure quella solare e colorata della Riviera di Chiaja, tantomeno quella del chiassoso, gioviale e accogliente centro storico con tutte le sue contraddizioni e il suo folklore. Napoli è il Rione – Rione Luzzatti, nel cuore del quartiere di Gianturco – nella piena crudeltà dell’accezione che le attribuiamo, e Rione vuol dire violenza, vuol dire degrado, tanto morale quanto strutturale, con il dialetto unica lingua conosciuta nella sua forma volgare e stonata.

Essere figli del Rione significa non scapparne mai, farne parte per sempre, avere già scritto nel proprio destino il racconto della propria mediocre esistenza. I personaggi che lo abitano sono impegnati come in una danza che li porta a incrociarsi di continuo, a rincorrersi in maniera ossessiva, morbosa, in un susseguirsi di intrighi e di eventi che sfociano spesso in sottili giochi di quartiere o violente esplosioni di affermazione. Lasciare il Rione è possibile, come dimostra uno dei due personaggi protagonisti – la storia coinvolge i membri di circa dieci famiglie – ma il Rione non lascia mai un suo figlio. Torna a galla con una frase sguaiata, un gesto violento che riaffiora automatico, il bene che richiama sempre il male in qualche sua forma.

È straordinaria, l’autrice, nella caratterizzazione dei personaggi, di ogni propria sfaccettatura che inevitabilmente si mischia con quei gesti che sembrano standard, obbligati a chi abita il Rione, come un tatuaggio d’appartenenza. Ed è altrettanto attenta, precisa, nel mostrare lo stupore del “fuori”, quella luce che balza agli occhi una volta varcato il tunnel che porta al mare, a Piazza Garibaldi, alle librerie di Port’Alba, ai negozi eleganti di via dei Mille e Piazza dei Martiri.

Napoli è, allora, finalmente più dolce, libera, fuori dai confini a cui costringe il Rione. E il turista lo avverte sulla propria pelle. La città ha più di due soli volti.

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