Dopo il mondo distopico di The lobster, nel quale vigeva la dittatura della coppia come obbligo di legge, e lo spietato Il sacrificio del cervo sacro in cui si chiedeva a un padre il più terribile dei sacrifici per ristabilire l’ordine sociale, Yorgos Lanthimos si confronta per la prima volta con una storia non scritta da lui (la sceneggiatura, che circolava da un po’, è di Deborah Davis e Tony McNamara), nella quale il palazzo reale inglese diviene luogo di plagi, ossessioni, colpi bassi e spietati giochi di potere sul filo di un’ironia e di un cinismo estremi. Anche in questo caso espedienti utili a ristabilire un ordine. Nonostante La favorita nasca come lavoro su commissione, è evidente che Lanthimos si senta molto a suo agio con una storia del genere, che gli permette di portare avanti alcune delle sue tematiche. La cosa pare sia andata molto bene, viste le 10 nomination agli Oscar, comprese miglior film e regia.
Alla corte della Regina Anna d’Inghilterra (che regnò dal 1702 al 1714) la vera detentrice del potere è in realtà Sarah Churchill (Rachel Weisz), duchessa di Malborough, favorita della monarca che, approfittando del suo carattere debole e capriccioso, di fatto riesce a influenzarne le decisioni perfino in materia di politica estera, manipolandone abilmente i desideri e le ossessioni. Questo stato di cose verrà messo in discussione quando arriverà a corte Abigail Hill (Emma Stone), cugina di Sarah caduta in disgrazia, che, partendo da semplice domestica, cercherà di subentrare alla parente nei favori, anche sessuali, della regina.
Lanthimos tesse un grande affresco caustico e distorcente in tutti i sensi, anche visivo, visto il largo uso del fish-eye, ovvero il grandangolo che rende le prospettive distorte e piega la scena a una visione grottesca del reale, che diviene appunto messinscena. Tale visione sottolinea, in un gioco fin troppo scoperto, la distorsione morale di tutti i personaggi che abitano la corte di Anna, a partire dagli uomini imbellettati – tra questi il Nicholas Hoult degli X-men che qui interpreta Harley, il capo dell’opposizione – che si trastullano con insulsi giochi come la corsa delle anatre o il tiro a segno con melograni marci ai danni di un nobile nudo. Questo però non è nulla in confronto agli intrighi messi in atto da Sarah per mantenere la sua posizione di prestigio e da Abigail che cercherà di spodestarla con ogni mezzo possibile. Non è un caso che quando Abigail arriva per la prima volta a corte è sporca di fango ed escrementi perché, come le racconta una domestica del palazzo, le persone sono use a defecare per strada come mezzo di dissenso politico. Al vertice del triangolo c’è la Regina Anna, ammalata di gotta, irresoluta di carattere, infantile e manipolabile, ma forse non tanto inconsapevole del suo ruolo di potere tra le due cortigiane, tant’è vero che anche lei “giocherà” con le altre in un turbinio di blandizie reciproche, sotterfugi e gelosie. Il suo personaggio è in realtà più complesso di quanto sembri e pare trovare compensazioni alle tragedie della sua vita – ha perso ben 17 figli – nel tenere altrettanti conigli nella sua camera. Sulla fin troppo esplicita simbologia del coniglio però non ci addentriamo.
Lanthimos non risparmia dettagli su umori corporei, piaghe e ferite che, anziché, avvicinare empaticamente lo spettatore alle sofferenze dei personaggi, in realtà lo allontana, facendo tutto parte di una messa in scena algida, fredda, in cui l’uso del teleobiettivo – che schiaccia le prospettive e avvicina chi guarda – è bandito a favore di un utilizzo pressoché totale del grandangolo, sia in modalità distorcente del reale sia a sottolineare il carattere straniante di ciò che vediamo sullo schermo. Per contrasto, viene in mente Barry Lyndon (1975) il capolavoro kubrickiano ambientato anch’esso nelle corti d’Europa del Settecento nel corso della scalata sociale dell’omonimo protagonista, in cui invece veniva fatto largo uso dello zoom all’indietro (cioè del teleobiettivo a focale variabile): nel film di Kubrick a partire da un dettaglio si scopriva pian piano una scena che diveniva un vero e proprio quadro sontuoso, anzi molto spesso era possibile individuare i riferimenti pittorici precisi di molte inquadrature. Nell’opera di Lanthimos la macchina da presa non è mai ferma e, con il favore del grandangolo che permette messe a fuoco più semplici, il regista greco imbelletta il film di carrellate, panoramiche a 360 gradi e balletti visivi forse un po’ eccessivi. Il linguaggio della ripresa è, come sempre, interessante e raffinato ma in questo caso straborda un po’, come se volesse a tutti i costi farci vedere quanto è bravo a rispecchiare le ambiguità morali dei personaggi nello stile della pellicola. Anche l’uso di sovrimpressioni in dissolvenza all’inizio e alla fine, a sottolineare due decisivi momenti di trasformazione di ruoli – di cui non diremo per evitare spoiler –, è un po’ affettato.
Detto questo, il film prosegue spedito, sostenuto da una sceneggiatura serrata nella quale i dialoghi sferzanti sono il vero punto di forza come pure la tripletta di attrici eccezionali: la mascolina, imperturbabile e manipolatrice Sarah/Rachel Weisz, la gatta morta e fintamente ingenua Abigail/Emma Stone e la dolente e infantile Regina Anna/Olivia Colman, già premiata a Venezia con la Coppa Volpi. Entrambe, la Stone e la Weisz, sono state nominate per lo stesso film nella categoria degli Oscar per la miglior attrice non protagonista, cosa piuttosto rara. Più prevedibile, ma anche meritata, la candidatura della Colman come miglior attrice protagonista.
È interessante notare, inoltre, come alcune pellicole uscite in questa prima tranche di 2019 costruiscano delle rappresentazioni di matriarcati in microcosmi ben definiti: le streghe della scuola di danza di Suspiria, le bambole guerrigliere sexy delle storie inventate dal protagonista di Benvenuti a Marwen e, infine, la triade di Regina con due Dame de La favorita, chiuse anche loro in un microcosmo speciale, apparentemente più grande ma in realtà claustrofobico come la corte d’Inghilterra nel Settecento. Al di là di facili allusioni al movimento #MeToo, sembra invece affascinante il dato antropologico/psicologico che viene fuori dalla direzione in cui vanno questi film e cioè l’esplorazione di un universo femminile in cui la maternità viene negata e la donna, volente o nolente, assurge a simbolo collettivo. Madre terrificante e castrante, dispensatrice di punizioni, in Suspiria; guerrigliera combattiva che, in uno scambio dei tradizionali ruoli narrativi, interviene puntualmente come angelo custode a proteggere il traumatizzato e inerme Augie in Benvenuti a Marwen. Infine, ne La favorita, una completa immedesimazione con ciò che il ruolo politico esige: la regina, che non procrea, proprio come Elisabetta I un paio di secoli prima, diventa il rappresentante asessuato – non nel senso di castità sessuale, ma a un livello più simbolico – dello Stato, entità priva di genere con cui viene identificata totalmente malgrado i propri limiti caratteriali e la sua reticenza ad assumere un ruolo attivo nel governo. Quasi come se il potere, nel momento in cui viene incarnato dalla donna, ne neghi il la capacità biologica di dare la vita? Infine, sia la congrega di streghe di Suspiria, che la triade femminile del film di Lanthimos, eserciteranno un’influenza, più o meno occulta e più o meno consapevole, sulla storia.
To be continued…