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L’amore tossico e le teorie dell’attaccamento

Floriana Coppola di Floriana Coppola
24 Agosto 2023
in Lapis
Tempo di lettura: 6 minuti
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Ci sono saggi che restano impressi nella mente e che diventano sempre più illuminanti nel tempo. L’esperienza vissuta, infatti, chiarisce passaggi che inizialmente possono sembrare oscuri. Le ultime vicende di cronaca mi hanno fatto riaprire libri che avevo letto qualche anno fa.

Attaccamento e amore di Grazia Attili, psicologa e psicoterapeuta, docente universitaria di psicologia sociale, ci offre una pista significativa su cui lavorare e che ci aiuta a decifrare le caratteristiche relazionali arcaiche e moderne del legame sentimentale. Attili parla dell’amore come di un processo di attaccamento, caratterizzato da quattro componenti: la ricerca e il desiderio del mantenimento del contatto, l’effetto del rifugio sicuro, l’ansia da separazione e l’effetto di base sicura. Queste componenti strutturano il legame di coppia che è il riverbero interiorizzato del legame madre/bambino. Questo dato condiziona in seguito la vita in due e la scelta del partner.

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Non di rado l’amore romantico può trasformarsi in una relazione patologica e violenta. Per quale motivo la rottura di un legame affettivo porta a un comportamento criminale? Esiste uno schema di fondo collaudato “funzionante” e uno malato “disfunzionale” che ci possono sostenere in questa analisi dei comportamenti a rischio?

Attrazione, innamoramento, amore e attaccamento. Termini importanti per comprendere le degenerazioni affettive. La violenza è la riproposizione patriarcale di una struttura di relazione basata sullo svilimento biologico della figura femminile? Oppure bisogna leggere un’effettiva crisi di genere dettata dalla difficoltà degli uomini ad accettare l’alterità femminile, l’esistenza della donna e del suo valore? Quali sono le personalità che non riescono a sopportare la frustrazione della separazione? E altra questione: perché le donne non si proteggono e non se ne vanno prima dell’azione violenta incontrollata?

Tutte le società patriarcali, scrive Diana Russell, famosa criminologa americana, hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne. Alle radici del predominio dei maschi, c’è una supremazia assoluta nella sfera della sessualità e della riproduzione nella quale una differenzia biologica, anatomica, fisiologica, “sessuale” nel senso letterale del termine, viene trasformata dagli uomini, con tutti i mezzi fino alla violenza più brutale, in differenza di “ruoli” sociali e familiari e differenza di “genere” che impone alla donna una posizione subordinata all’uomo. Esiste quindi una questione psicologica che si incista in un copione culturale/antropologico di genere ancora non superato.

La corrente femminista radicale interpreta la concezione della condizione biologica come motivo ineluttabile che tende a giustificare la sottomissione e quindi la sopraffazione, sia nell’ambito privato che in quello pubblico, al punto che le due categorie non sono più separabili, poiché quello che accade nel privato delle mura domestiche assume un significato sociale e politico. Responsabili del processo di oggettivazione, della riduzione del soggetto femminile a oggetto, sono i mass media e le altre agenzie di formazione (la famiglia, la chiesa e la scuola) che plasmano e rinforzano le strutture inconsce, maschili e dominanti, femminili e dominate.

Anche le donne nelle società patriarcali sono state educate per funzionare in maniera patriarcale. La cultura massmediale moderna rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini subliminali che legittimano la violenza, illegale ma legittima all’interno di una società a denominazione maschile.

La criminologa messicana Marcela Lagarde afferma: il femminicidio è un fenomeno di portata sociale, non un semplice delitto privato, è un crimine che si estende in maniera trasversale e globale a tutta la società.

Come dice Grazia Attili, il cervello, con le sue componenti chimiche, è l’organo responsabile della mescolanza di stati emotivi che caratterizzano le storie d’amore. L’amore, il “legame d’attaccamento”, implica la costruzione della coppia, le cui continue trasformazioni rappresentano tappe caratterizzate, ciascuna, dal coinvolgimento di aree cerebrali specifiche e da reazioni chimiche differenziate. Questo percorso ha una precisa evoluzione: si individua un partner, si prova attrazione, poi scattano i meccanismi dell’innamoramento, in seguito la persona prescelta diventa l’oggetto di un amore profondo, che infine si concretizza in un legame fortissimo, detto legame d’attaccamento. E questo succede nella normalità. Ma poi in alcune coppie il processo si inceppa.

Secondo la prospettiva darwiniana, l’amore, l’emergere della tendenza a formare un legame esclusivo con un partner basato sulla monogamia e sulla fedeltà, risponde all’esigenza progressivamente radicatasi nella nostra biologia di una garanzia vantaggiosa in termini di successo riproduttivo. Robert Sternberg, pioniere della psicologia cognitiva, afferma che l’amore può essere inteso come un triangolo ai cui vertici possono essere collocati metaforicamente tre ingredienti: passione, intimità e decisione-impegno. Questi tre ingredienti correttamente equilibrati costruiscono una relazione unica e irripetibile.

Superato lo Sturm und Drang della passione durante le fasi dell’attrazione e dell’innamoramento, emerge un sentimento che prevede tre dimensioni distinte ma potenzialmente conflittuali: la passione considerata come attrazione fisica, l’intimità come desiderio di condivisione e l’impegno come volontà di creare una relazione stabile. Passione, intimità e impegno possono coesistere, come accade nell’amore completo; succedersi l’uno all’altra, oppure prevalere l’uno a scapito dell’altra.

Spesso gli uomini maltrattanti (affetti da disturbi psicopatologici: i narcisisti patologici, gli evitanti, i ciclici/borderline e gli antisociali) non sono capaci di dare spazio alle componenti necessarie per rendere intimo e impegnato un rapporto ma rimangono confinati nell’universo emozionale del desiderio di attaccamento e di possesso. È necessaria quindi una riprogrammazione psicoesistenziale per superare questo impasse relazionale.

Altro problema: davanti a “segnali d’allarme” espliciti, perché le relazioni con un rilevante grado di tossicità relazionale non vengono “stroncate” sul nascere dalle donne? Spesso le vittime sono affette dalla sindrome della “crocerossina” e in un delirio ciclico di onnipotenza credono di poter salvare la relazione. Marie France Hirigoyen nel suo saggio Sottomesse. La violenza sulle donne nella coppia afferma che la violenza ciclica in una relazione sentimentale disturbata si stabilisce per gradi. Ogni ciclo di violenza si articola in quattro fasi e, a ogni tappa, il pericolo per la vittima aumenta.

La prima, detta “fase di tensione”, registra una forte irritabilità dell’uomo provocata dalle preoccupazioni quotidiane, attraverso la mimica e il timbro della voce. L’uomo tende a rendere la donna responsabile della frustrazione e dello stress. La donna, avvertendo la tensione, cerca di mostrarsi gentile.

Nella seconda fase, “fase d’attacco”, l’uomo dà l’impressione di perdere il controllo di sé, con una manifestazione di violenza graduale. La donna psicologicamente succube non reagisce, per non aggravare i maltrattamenti. Nella terza fase, la cosiddetta “fase di scuse”, emerge il pentimento: l’uomo cerca, infatti, di cancellare e di minimizzare il proprio comportamento, colpevolizzando la partner o attribuendo la responsabilità a cause esterne, ira, alcool, sovraccarico lavorativo.

Nella quarta e ultima fase, quella “di riconciliazione”, l’uomo terrorizzato all’idea di aver oltrepassato il limite e di poter perdere la partner modifica, anche se temporaneamente, il proprio atteggiamento: diventa dolce, attento, premuroso. Si tratta di una tregua momentanea: l’uomo, quando la paura dell’abbandono riemerge, riassume il controllo; la donna, che invece ha abbassato la guardia, innalza il proprio livello di tolleranza agli attacchi, esponendosi nuovamente all’intero ciclo. Quando la violenza si è radicata, i cicli si ripetono, con crescente intensità. Se il processo non viene interrotto, precisa e conclude la psichiatra e psicoterapeuta francese, la situazione precipita e, di conseguenza, la vita della donna può essere in pericolo.

Gli psicologi indicano nella struttura narcisistica di personalità le caratteristiche fondamentali di un partner maltrattante. Il narcisista manipola la sua vittima, è incapace di empatia ma vive l’abbandono e la separazione come un fallimento esistenziale che lo distrugge o lo spinge a esiti dissociativi.

Purtroppo il processo di emancipazione femminile ha prodotto effetti devastanti sull’altro sesso, quello maschile. Scrive Chiara Camerani: La storia ci consegna oggi, dopo secoli di sottomissione della donna, una condizione femminile che non si era mai verificata in precedenza: l’autonomia. La rapida transizione intercorsa nel rapporto uomo/donna e, conseguentemente, nella percezione dei ruoli di genere e della struttura familiare si scontra, seppure a livello subliminale, con lo stereotipo della donna sottomessa, imposto agli albori della civiltà e rimasto inalterato fino ai giorni nostri.

Lo scardinamento degli stereotipi di ruolo alimenta la crisi di genere. Solo una seria educazione affettiva/emotiva consente di affrontare la crisi di genere che avvelena il nostro tempo e così prevenire l’eventuale trasmissione intergenerazionale della violenza.

Prec.

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