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Katia Tarasconi (PD): «Riproporre il modello Emilia-Romagna si può»

Redazione di Redazione
5 Febbraio 2020
in Interviste
Tempo di lettura: 7 minuti
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Nel corso dell’ultima puntata di Nel Mar dei Sargassi, il nostro appuntamento quindicinale sulle frequenze di Border Radio, è intervenuta Katia Tarasconi, Consigliere Regionale in Emilia-Romagna, confermata alle elezioni dello scorso gennaio.

Sollecitata dalle domande di Lino Manella e del direttore Alessandro Campaiola, Tarasconi ha commentato le ultime Regionali e l’ascesa della Lega in una terra da sempre considerata rossa. Ha affrontato, poi, il problema del lavoro e dell’occupazione giovanile, temi che – a suo dire – possono trovare soluzione solo su responsabilità della politica che deve tornare a parlare alla gente. A tal proposito, non è mancato il chiaro riferimento al PD, il suo partito, fortemente criticato lo scorso anno quando intimò ai vertici dem di ritirarsi perché, ormai, avevano perso il contatto con la base. Da allora – dice – tra i suoi c’è più consapevolezza. Resta, però, l’incertezza identitaria.

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Nell’ormai celebre intervento in occasione del Congresso del PD dello scorso anno, hai sottolineato, richiamando i tuoi colleghi, l’importanza di tornare a sognare, quindi di avere un contatto con la base. Quando credi che il Partito Democratico metterà nuovamente i piedi per terra?

«Mah… credo che oggi ci sia più consapevolezza rispetto a quando ho fatto quell’intervento. Non so, però, se ci sono le armi o la voglia per cambiare realmente le cose che, secondo me, vanno cambiate e profondamente».

Per esempio? Perché, sai, in questo Paese si percepisce il bisogno di sinistra. Qual è la tua idea in merito?

«Per la mia esperienza, al di là di quelle che sono le etichette – che nel 2020 risultano molto “annacquate” –, il tema vero sono i progetti, cioè che cosa si vuole realizzare. È troppo facile dire “sono di sinistra”, poi però bisogna mettere in pratica, avere delle idee e delle proposte concrete attraverso le quali far percepire e capire agli elettori che facciamo politica per il popolo, non per gli interessi di piccole parti o di qualcuno. C’è poi il compromesso, che è proprio della politica e in alcuni casi persino necessario. Mi viene in mente il lavoro, per citare qualcosa di concreto. Penso ai tantissimi ragazzi e non che oggi lavorano con partita IVA, non hanno alcuna tutela. Se una giovane donna tra loro aspetta un figlio, è totalmente scoperta rispetto a una sua coetanea che ha un contratto a tempo indeterminato. Questo è il punto: dobbiamo lavorare sui diritti – e suoi doveri, ovviamente –, ma soprattutto dare delle reti di protezione ai nuovi lavoratori. Non possiamo pensare di riportare il mercato del lavoro a quello che era negli anni Settanta e Ottanta, dobbiamo accettare che il mondo è cambiato, che la società si è evoluta e in modo, probabilmente, peggiore. Penso a mia figlia, diciannovenne, la sua è la prima se non la seconda generazione che ha la certezza di stare peggio dei propri genitori ed è su questo che dobbiamo impegnarci, tornare a trovare dei meccanismi che consentano anche a chi ha modelli nuovi di lavoro di avere le stesse tutele dei lavoratori a tempo indeterminato laddove non è più possibile seguire quelli che erano gli schemi tradizionali. Discorso simile riguarda le pensioni: c’è un’intera popolazione che fatica a sopravvivere, non a vivere, con la pensione minima. L’equità sociale è il tema di fondo. Se questa la vogliamo chiamare sinistra, allora l’etichetta è giusta, ma non è importante».

Nonostante tutto, le pensioni costituiscono ancora oggi quello che è il residuo di welfare di cui in qualche modo i più giovani riescono a beneficiare… A tal proposito, una piccola riflessione su ciò che chiamiamo libero mercato: per definirsi davvero tale, dovrebbe essere libero per tutti, non soltanto per chi può permetterselo…

«Sono pienamente d’accordo, ma la differenza la fa la politica. Ti spiego: quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, da quasi quarantenne, mia madre si è riscritta all’università. Oggi esercita ancora la professione per la quale si è formata allora. Ed è una storia quasi inimmaginabile, in Italia, quella di una donna che a quasi quarant’anni si reinventa, tornando a studiare e a rimettersi in gioco. È questo il problema: dobbiamo dare le opportunità a chi vuole e a chi necessita di riformarsi. Il mercato del lavoro è cambiato, dunque è nostro compito garantire la giusta formazione professionale, è fondamentale per aiutare i cinquantenni che vengono licenziati e fanno fatica a ricominciare ma, anche,  i giovani, al di là del percorso universitario che non è detto che sia adatto a tutti. Ci sono molte professioni che si stanno perdendo perché non si insegna ai ragazzi come praticarle ed è un peccato, siamo un Paese di artigiani, di piccole, piccolissime imprese, non il Paese delle grandissime aziende».

Il problema dell’occupazione, però, passa proprio da qui. Le nostre grandi aziende, come la FIAT, ormai si spostano all’estero. Bisognerebbe domandarsi, quindi, perché le imprese delocalizzano…

«Il discorso si muove su due binari: il primo riguarda l’Europa, l’altro la stabilità dei nostri governi che non porta l’imprenditore a fidarsi, a pensare di investire in un Paese dove le regole possono cambiare in spazi temporali molto brevi. La stabilità è necessaria sia per chi vuole venire in Italia sia per chi è già qui e tende ad andare via. Bisognerebbe avere una politica responsabile».

Stabilità uguale responsabilità, siamo d’accordo. Lo Stato in quanto struttura, però, deve imparare a intervenire, come nel caso ILVA, ma – anche – tornare a credere nei giovani. Da anni, nonostante l’alternarsi dei governi, non si pensa a una seria riforma che punti sulla formazione o sull’impiego giovanile, limitando l’emigrazione. Quale la soluzione?

«Sicuramente il tassello più importante è la scuola. I percorsi di studi scolastici, universitari e di formazione permanente che forniamo ai ragazzi vanno adeguati al mondo del lavoro di oggi. Tuttavia, sono d’accordo sulla necessità di nuove riforme. Credo che un imprenditore che sceglie di assumere un ragazzo debba godere di forti sgravi fiscali, solo così si può incrementare l’impiego giovanile. Purtroppo, però, il discorso varia da regione a regione. I dati dell’Emilia-Romagna, ad esempio, sono sicuramente migliori rispetto al resto d’Italia, sebbene ormai anche qui si avverta la difficoltà nel puntare su un giovane. Resto comunque fermamente convinta che tutto parta dalla scuola, dalle armi che diamo in mano ai ragazzi affinché possano trovare un lavoro remunerato al fine di metter su famiglia. C’è poi un discorso culturale da rivedere secondo il quale se assumo un giovane posso pagarlo meno, tanto ci sono i genitori. È un meccanismo che genera sfruttamento, ma solo la politica può rimediare. Non c’è un imprenditore che non vuole assumere perché assumere significa che la sua azienda sta crescendo, quindi ne ha tutto l’interesse. Stesso discorso va fatto per l’incremento degli stipendi, anche in questo caso è necessaria una detassazione al fine di aumentare la domanda e, dunque, vederne giovare l’intero sistema».

Poc’anzi citavi la tua regione. Perché il modello Emilia-Romagna che, al netto delle leggi italiane, è un modello funzionante, non può espandersi nel nostro Paese?

«Il modello Emilia-Romagna credo che sia fondato sulla storia, su caratteristiche proprie della nostra gente e delle amministrazioni che si sono avvicendate che hanno fatto sì che il bilancio fosse minimamente indebitato. Ci sono professionalità all’interno della nostra regione e una visione di come deve essere la pubblica amministrazione che vengono da lontano».

Però, è pur vero che, dal dopoguerra in poi, per l’Emilia-Romagna sono stati stanziati numerosi fondi al fine di ricostruire quella che è stata anche casa di Mussolini…

«Dal punto di vista storico è così. Oggi, però, a livello nazionale bisogna puntare a una classe dirigente più omogenea perché sono le persone che fanno la differenza. Non bastano le preferenze che il singolo può prendere, servono le capacità, la conoscenza dei problemi. Personalmente, so quali sono i miei limiti, non parlo di cose che non conosco, studio, mi informo, a differenza di una classe dirigente che, invece, studia poco. E non mi riferisco all’università. Ci sono, comunque, delle soluzioni che qui funzionano e che si potrebbero esportare. La sanità, ad esempio».

Dal tuo ritiratevi tutti a oggi, nonostante un nuovo Segretario, il partito continua ad apparire senza identità. Come si sta in questo PD?

«Credo che il problema identitario sia ancora molto forte e lo è perché non c’è stata la discussione che deve esserci. L’aspetto positivo di questo partito è che possibile convivere con persone che non la pensano allo stesso modo, cosa che è tipicamente nostra. Nella Lega, ad esempio, non succede. Si fa quello che ti viene detto. Da noi, invece, c’è la possibilità di discutere e di avere tesi diverse. La via di mezzo, però, è la soluzione migliore, altrimenti si finisce o con il troppo o con il niente. Non demonizzo il leader in quanto tale, le persone votano perché vogliono affidarsi a qualcuno, ma quel qualcuno deve formarsi un’opinione ascoltando chi ha intorno per trovare il compromesso a cui facevamo cenno. Quel compromesso è necessario, lo capisco da me, quando la critica non è fine a se stessa, mi aiuta a crescere, a fare del mio meglio. Per tornare alla domanda, ripeto, l’identità continua a mancare».

A proposito di Lega, in Emilia-Romagna non ha del tutto perso. Quali ripercussioni credi che avrà a livello nazionale?

«Abbiamo votato appena una settimana fa, quindi è difficile fare una considerazione definitiva. Non credo che queste elezioni avranno riflessi sul governo centrale, anche se la Lega ha fatto un ottimo risultato. Se non ci rendiamo conto che Salvini ha raggiunto numeri importanti in una regione dove tutto sommato c’è un tasso di disoccupazione che è sotto il 5%, una sanità che funziona bene e un buon sistema in generale, dobbiamo farci delle domande, apportare dei correttivi. Nella mia città, a Piacenza, l’amministrazione è di centrodestra e la Lega ha vinto. Come centrosinistra abbiamo governato per quindici anni, due anni fa però siamo stati sconfitti. L’attuale giunta, a mio avviso, non sta facendo grandi cose, anzi, eppure abbiamo perso ugualmente. Certo, personalmente, mi sono presa una piccola soddisfazione che è quella di essere stata la più votata in assoluto nel mio Comune, però ci si deve comunque porre degli interrogativi quando la Lega vince di così tanto rispetto al Partito Democratico».

Il Regno Unito è ufficialmente fuori dall’Unione Europea. Cosa succederà all’Europa e a noi?

«Sono convinta che la Brexit non sarà una buona cosa per l’Inghilterra. Alcuni dati lo stanno già dicendo. A mio avviso, storicamente siamo stati tutti un filino meglio stando insieme. Anziché la Brexit, bisognava fare il cambio dell’Europa che andava e deve essere migliorata. Vanno uniformate le regole del gioco affinché un’azienda non abbia interesse a spostarsi dall’Italia per andare in Romania. È questo che crea disuguaglianza. Non si deve uscire dall’Unione Europea, il suo tema di fondo è la pace, quella che ha impedito alla nostra generazione di vivere la guerra, però dobbiamo restare insieme secondo regole equilibrate, uguali per tutti, senza che nessuno abbia la meglio rispetto agli altri. Se lo avessimo fatto prima, forse non staremmo parlando di Brexit. Spero che l’addio del Regno Unito sia una sveglia per l’UE».

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