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Il tatuaggio dalla persecuzione cristiana al diritto palestinese

Noemi De Luca di Noemi De Luca
24 Febbraio 2024
in Rubriche
Tempo di lettura: 3 minuti
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Sapevate che la Bibbia è il testo letterario più antico che ci parla di tatuaggi e che lo fa con un divieto? Levitico 19:28, Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore. Sembra che il comando sia chiaro: niente marchi sulla pelle.

E, invece, i cristiani nei secoli si sono sbizzarriti con aghi e inchiostro. Anzi: hanno addirittura reso questi marchi una prova della loro fede. Come mai questa disobbedienza? C’entra la natura clandestina del Cristianesimo e la sua iniziale oppressione.

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Durante l’Impero Romano, i tatuaggi erano una pratica degradante imposta ai criminali e agli schiavi: l’élite romana voleva rendere facilmente identificabili i devianti e i loro sottoposti, e li marchiava come animali. Anche i cristiani venivano marchiati e incarcerati, o mandati a lavorare in miniere d’oro e d’argento.

A un certo punto, però, i cristiani cominciarono a tatuarsi spontaneamente. Il loro riferimento era proprio la schiavitù: lo scopo, infatti, era identificarsi come schiavi di Dio (Rev. 7:2-3). Era molto on brand per una religione improntata sul concetto di martirio e sulla crocifissione di una divinità sovvertire i simboli di dominazione e sottomissione, l’onore e la vergogna, l’attività e la passività.

Secondo la storica Burrus, inserendo i tatuaggi nella loro tradizione biblica, teologica e poetica, i cristiani performarono una inversione simbolica e retorica delle relazioni di potere, fondendo (senza confondere) ribellione e arresa, nobiltà e degradazione, corpo e spirito, potere terreno e divino.

Gli stigmata (plurale di stigma, latino per marchio, ferita o tatuaggio) diventarono perfino un segno di elezione divina: alcuni cristiani sostenevano che il loro stigma non era stato tatuato, ma che era apparso come un miracolo. Piccole croci, pesci o altri simboli legati alle ferite di Cristo: gli stigmata d’improvviso erano diventati cool. E questo capovolgimento non rimase nei confini dell’Impero.

Nel diciottesimo secolo, la Chiesa Copta – una minoranza cattolica perseguitata dalle autorità islamiche – cominciò a tatuarsi croci sulle tempie, sui polsi e sulla fronte: un segno di ribellione e sfida aperta alle autorità. I cristiani copti non si nascondevano più. I tatuaggi erano diventati un simbolo di resistenza: con quei simboli, infatti, i cristiani copti negavano l’autorità del governo islamico e si affidavano a un’autorità suprema e divina. Ancora oggi, i tatuaggi sono obbligatori in alcune comunità copte.

È proprio la tradizione copta alla base di uno degli studi di tattoo più antichi al mondo, nel cuore di Gerusalemme: quello di Wassim Razzouk, l’ultimo tatuatore cattolico-palestinese della città. Nel 1300 d.C., cavalieri e viandanti avevano preso l’abitudine di tatuarsi al termine dei loro pellegrinaggi in Terra Santa, e la famiglia Razzouk – di origine copta – colse la palla al balzo, mettendo in piedi un piccolo business.

Per secoli i Razzouk incisero la pelle dei cristiani, tramandando l’arte dei tatuaggi di generazione in generazione. O, almeno, fino al 1948, quando le forze sioniste occuparono Gerusalemme. 750mila palestinesi dovettero abbandonare case e botteghe: tra loro c’era Yacoub Razzouk, nonno di Wassim.

Dobbiamo fare un salto nel tempo, fino al 2016, perché la bottega venga riaperta: non lì dov’era – l’antico studio di tatuaggi era stato smantellato e incorporato tra i beni di Israele – ma comunque nella città vecchia. Quando gli estremisti sionisti affermano che la Palestina non è mai esistita – racconta Wassim – sono fiero di avere la mia famiglia come prova che non solo la Palestina è esistita, ma che abbiamo avuto una cultura vibrante per secoli e secoli.

I tatuaggi sono appartenenza, storia e cultura. E se oggi i cristiani non sono più una comunità marginalizzata, altre categorie – come la comunità LGBTQ+ o le minoranze etniche – hanno cominciato a usare i tatuaggi esattamente allo stesso modo. Forse ai cattolici il paragone non piacerà, ma la storia non mente.

Al posto delle croci c’è l’arcobaleno, la stella nautica o la labrys, ma il senso è lo stesso: riappropriarsi del proprio stigma e mostrarlo con orgoglio. Marchiare la propria pelle con simboli che un tempo venivano usati per opprimere e cancellare, così da depotenziarli, sovvertirli e non averne più paura.

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