Solo un fiume a separarli Stati Uniti e Messico, solo un fiume e chilometri di deserto. Zone di confine, di passaggio e di preghiera, zone disperate e di speranza. Dune di cadaveri e di sogni, flussi di progetti e di famiglie, cimiteri di un futuro che non si realizzerà mai. Terre di illegalità e di pattuglia, di umanità e legge, spesso, troppo spesso, in disaccordo tra loro. Il potere a farla da padrone. È una fotografia amara quella scattata da Francisco Cantú nel suo The Line Becomes a River, Solo un fiume a separarci, un enorme successo americano tradotto in Italia da Fabrizio Coppola per la minimum fax.
Agente di frontiera per quattro anni, convinto che, per capire fino in fondo il fenomeno dei flussi migratori e le storie di ordinaria e straordinaria umanità che lo sottendono, non bastassero i libri, i manuali o le statistiche, ma fosse necessario vedere le cose in prima persona, quella di Cantú è una testimonianza vera e diretta di un confine, sconosciuto nella sua atroce quotidianità, che ancora miete vittime, che ancora va rafforzandosi – complice l’attuale amministrazione a stelle e strisce guidata da Donald Trump –, indebolendo così il diritto al desiderio di un mondo privo di linee di demarcazione, un mondo in cui per sopravvivere non c’è bisogno di emigrare e per vivere a ciascuno è garantita almeno un’opportunità. Pura illusione nel continente americano come in quello Vecchio, dove ogni giorno, nel Mediterraneo, in troppi continuano ad annegare nell’indifferenza del capitalismo.
In Antígona González, Sara Uribe scrive:
Contateli tutti.
Nominateli, per dire: questo corpo potrebbe essere il mio.
Il corpo di uno dei miei cari.
Per non dimenticare che tutti i cadaveri senza nome sono i nostri corpi perduti.
Il volume si divide in tre parti, tante quanto i momenti salienti della vita professionale dell’autore. Terminati gli studi di diritto internazionale, Francisco Cantú sceglie di arruolarsi nella migra, la polizia di confine. Nella prima sezione, dunque, racconta i suoi anni alla frontiera, dalla decisione di entrare nel corpo paramilitare per aiutare i dannati della terra alla routine di un poliziotto al limite del deserto, in una terra di mezzo fatta di storie che nessuno vuol sentire, un traffico illecito di droghe e persone, dove le prime riescono a passare più spesso delle seconde. Cantú riporta alcuni incontri, scambi di parole e di umanità, i suoi tentativi di uscire illeso da un dilemma che lo corrode ogni giorno, mosso tra la voglia di assistere e l’obbligo di intervenire secondo legislazione, lui che è nipote di messicani emigrati inseguendo il sogno americano.
«Potrò aiutare quella gente. Parlo entrambe le lingue, conosco entrambe le culture. Ho vissuto in Messico e viaggiato in tutto il paese. Ho visto cittadine e villaggi abbandonati dai loro abitanti che partivano verso nord in cerca di lavoro. Ci saranno sempre persone perbene che cercano di oltrepassare il confine, e che io faccia parte o meno della polizia di confine, gli agenti saranno là ad aspettarli. Perlomeno, se sarò io ad arrestarli, potrò offrire un po’ di conforto, parlando la loro lingua e dimostrando di conoscere il loro paese».
«D’accordo», disse mia madre. «Voglio solo che tu capisca che stai entrando in un sistema – e un’istituzione – che non ha molto rispetto per le persone».
Distolsi lo sguardo, tra di noi calò il silenzio. Mi osservai le mani e soppesai le sue parole. «Forse hai ragione, risposi, «ma entrare in un sistema non vuol dire diventare il sistema». Appena pronunciai quelle parole, la mia mente fu assalita dai dubbi.
Le giornate si susseguono tutte piuttosto simili, tutte in attesa di qualcuno o qualcosa, di un movimento che animi la spianata desertica: gruppi di uomini, carovane, donne e bambini, le spalle cariche di acqua, cibo, vestiti, zaini colmi di beni di prima necessità spesso abbandonati per sfuggire agli agenti, per non rischiare di essere rimandati indietro. Zaini e beni tra cui i poliziotti sbirciano quando li incontrano sul loro cammino per poi svuotarli, disperdendo gli abiti, svuotando e tagliando le bottiglie, finendo persino con l’urinarci sopra. Una specie di passatempo, forse, un modo per infrangere sogni e speranze. Ma se il giorno, seppur con le sue difficoltà, si fa accettabile, è il calare delle tenebre a non dare tregua a Francisco Cantú, tormentato dagli incubi e dalle domande, da un lupo che è la coscienza che bussa, che si interroga e si fa sentire. Uno sbalzo di temperatura, fuori e dentro l’autore, che ne accresce la titubanza, il timore di una scelta sbagliata.
Di notte sogno di digrignare i denti fino a romperli, ne sputo i frammenti sul palmo e li reggo tra le mani a coppa, cercando qualcuno a cui mostrarli, qualcuno che capisca cosa mi sta accadendo.
La seconda parte vede Francisco accettare un nuovo incarico presso l’intelligence della Border Patrol, la Pattuglia di frontiera degli Stati Uniti. Si tratta di un impiego d’ufficio, di documenti da compilare e rapporti da redarre, una promozione importante che permette a Cantú di abbandonare l’esperienza diretta sul campo, mediata da telecamere e scartoffie, non per questo, però, meno dolorosa. Ad accompagnarlo in ogni fase, la presenza della madre – con cui il libro si apre –, la quale non nasconde mai le proprie perplessità in merito al ruolo scelto dal figlio, un ruolo che critica ampiamente poiché consapevole che includa violenza emotiva e fisica. Una violenza che diventa abitudine, gesti quotidiani, sopraffazione costante, carcasse abbandonate che si fanno pasto per gli animali, l’odore nauseabondo dei cadaveri lasciati per giorni al caldo del deserto.
La polizia di confine, gli sceriffi, sembra che tutti abbiano scordato la pietà. Credo di non aver mai visto uno di loro mostrare un briciolo di umanità o compassione. Non so come facciano. Come si fa a tornare a casa dai propri figli, di sera, dopo aver trascorso l’intero giorno a trattare altri esseri umani come fossero cani?
La terza sezione del libro è dedicata alla nuova vita di Cantú, a una quotidianità lontana, ma non troppo, dal confine e dagli incubi. In particolare, si narra la storia di José, un messicano che ogni giorno si reca nella caffetteria in cui Francisco lavora, ormai tornato agli studi, per condividere con lui la sua colazione. Tra i due si instaura un rapporto di profondo rispetto e amicizia, un legame che si rafforza soprattutto quando l’uomo parte per il proprio Paese d’origine per dare l’ultimo saluto a sua madre. Da questo momento, non riesce più a rientrare negli Stati Uniti perché, si scopre, quasi un trentennio prima vi aveva fatto ingresso in modo illegale. Inizia, così, il racconto della trafila infinita a cui José e i suoi cari sono sottoposti, l’uno sulla sponda hispanohablante del Río Grande, gli altri su quella americana. Non basta che il messicano lavori e paghi regolarmente le tasse negli USA, non bastano le lettere di chi lo conosce e le testimonianze della buona attitudine di José, cittadino esemplare. La legge è legge e se l’uomo vuole rivedere i suoi amati, non può fare altro che tentare di oltrepassare la frontiera illecitamente, magari facendosi mulo, corriere incaricato dai cartelli di trasportare la droga oltre il confine, magari pagando i coyotes, veri e propri trafficanti di esseri umani che ammassano i migranti nelle drop house, case abbandonate dove i disperati vengono malmenati e tenuti in ostaggio in attesa del pagamento di un riscatto da parte dei loro familiari.
«Io farò qualsiasi cosa per tornare dalla mia famiglia. A dir la verità, preferirei finire in carcere negli Stati Uniti con la possibilità di vedere i miei figli una volta alla settimana da dietro quel vetro, piuttosto che restare qui, lontano da loro. Perlomeno saremmo vicini. Capisci adesso? Nulla può impedirmi di attraversare. […] Camminerò nel deserto per cinque giorni, otto giorni, dieci giorni – affronterò qualsiasi sforzo mi riporterà da loro. Mangerò erba, sterpaglie, cactus, berrò l’acqua putrida per il bestiame oppure non berrò proprio nulla. Mi nasconderò dalle pattuglie della migra. Pagherò alla mafia qualunque cifra chiedano. Possono tenersi tutti i miei soldi, possono derubare la mia famiglia, possono rinchiudermi da qualche parte, ma io continuerò a provarci. Continuerò ad attraversare il confine, ancora e ancora, finché non ce la farò, finché non sarò di nuovo con la mia famiglia. No, no me quedo aquí. Voy a seguir intentando pasar».
La storia della famiglia di José guida il lettore fino all’epilogo, nei fatti un’amara riflessione dello scrittore e un pugno nello stomaco per chiunque viva i nostri giorni, scanditi da morte e ipocrisia, da disperati alle porte del Mediterraneo e degli Stati Uniti, da mojados, quelli che attraversano il fiume a nuoto, e da barconi che affondano, barconi che nessuno vuole, da politiche scellerate e disumane, da corpi senza nome, lager e discriminazione. Nessun pietismo nelle parole di Francisco Cantú, soltanto la crudezza della realtà e la resa quasi plastica della corresponsabilità di ognuno di noi, complici di un mondo di disuguaglianza e violenza, di un’informazione che narra di queste – evitabili – tragedie come di un prezzo, una probabilità, un rischio. Come se la morte fosse il risultato prevedibile di un’analisi dei costi e dei benefici, che include rischi calcolabili e le loro conseguenze. Come fosse un pedaggio imposto dal deserto e dal mare. La morte è il rischio definitivo in un gioco governato dal caso, lo sfortunato risultato di un lancio di dadi. Perché, come denunciato anche da Jane Zavisca, professoressa di sociologia della cultura presso la University of Arizona, metafore come questa decontestualizzano la morte e suggeriscono che ai migranti vada imputata in qualche misura la responsabilità per i loro stessi decessi.
Un’informazione che, inoltre, rafforza l’umanità dei membri delle forze dell’ordine mentre fa l’opposto con i migranti, ritraendo i primi come salvatori. E, allora, ecco che i secondi si fanno flussi, ondate, massa indifferenziata volta a disumanizzare chi scappa, dipinto come animale, membro di gang, stupratore, un linguaggio che avalla quella concezione secondo la quale alcune vite non sono considerate affatto vite e alcuni esseri umani non riconosciuti come tali. Una logica tipicamente bellica che giustifica la violenza contro qualsiasi uomo schierato dall’altra parte della barricata. L’immigrazione, però, non è guerra, piuttosto è fuga da essa, fuga dalla fame, dalla povertà, dalla mancanza di una prospettiva non futura ma presente, immediata, è lotta alla sopravvivenza. Per questo, dunque, fa notare Francisco Cantú, nel nostro discorso pubblico spariscono i luoghi e le situazioni da cui i disperati scappano, sminuendo la stessa realtà delle loro vite. Così, per i dannati della terra, mancano persino i necrologi, la prima forma attraverso cui, in Occidente, i morti vengono umanizzati e riconosciuti. Per esserci un necrologio, spiega la filosofa Judith Butler, avrebbe dovuto esserci una vita, una vita degna di nota, una vita meritevole di essere ricordata, una vita meritevole di essere riconosciuta. Impossibile per chi la storia deve marchiare come invasore.
Solo un fiume a separarci di Francisco Cantú alterna pagine biografiche a brevi saggi, un’accurata ricostruzione di ciò che è successo negli anni fino a oggi, la demarcazione del confine e la costruzione di un muro per proteggere gli Stati Uniti, come sostiene Donald Trump. Una soluzione che, tuttavia, rima sempre più con il favoreggiamento all’illegalità, in Europa come nell’America che impartisce lezioni di democrazia. Nessuna frontiera, infatti, di acqua o di sabbia, ha mai realmente impedito e mai impedirà il desiderio di attraversarla, di passare oltre, di tentare di vivere, fosse anche la prima e ultima volta, fosse anche morendo.
Sono venuta a San Fernando per cercare mio fratello.
Sono venuta a San Fernando per cercare mio padre.
Sono venuta a San Fernando per cercare mio marito.
Sono venuta a San Fernando per cercare mio figlio.
Sono venuta a San Fernando per cercare i cadaveri della nostra gente.