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Decreto lavoro: le parole d’ordine sono precarietà e sfruttamento

Giusy Santella di Giusy Santella
22 Maggio 2023
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Poche settimane fa, il governo ha varato il cosiddetto decreto lavoro presentandolo come una rivoluzione, una riforma mai vista prima. Eppure, a ben vedere, si tratta per l’ennesima volta di misure già introdotte, a vantaggio delle stesse categorie di persone, e che perseguono esclusivamente interessi economici.

Come già annunciato, è stato eliminato il reddito di cittadinanza, sostituito da diverse misure di contrasto alla povertà che non sono però rivolte ai cosiddetti occupabili, introducendo inoltre numerosissime limitazioni per usufruire del beneficio e con categorizzazioni talmente rigide da non corrispondere minimamente alla realtà.

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Si decanta un grande risparmio che andrà a finanziare la diminuzione della pressione fiscale (che ancora una volta non riguarderà i piccoli lavoratori) e, con la messa a disposizione di una somma di 4 miliardi, di gran lunga inferiore rispetto a quelle previste per le riforme simili dei loro predecessori, si corroderà il già precario sistema di welfare.

L’idea alla base dei provvedimenti governativi è semplice: la povertà è una responsabilità individuale poiché chi è povero probabilmente non ha fatto abbastanza per uscire dalla propria condizione e, soprattutto, se chiederà alle istituzioni il necessario per sopravvivere non sarà altro che un fannullone che vuol campare sulle spalle degli altri. La narrazione che si vuole nutrire è chiara anche se si pensa alla scelta di approvare il decreto il primo maggio: sembra voler dire che mentre sindacati e lavoratori festeggiano, c’è qualcuno che davvero lavora. Esattamente come il Ministro della Cultura Sangiuliano che invita i direttori del Ministero a un pranzo di lavoro a ferragosto, dopo aver inviato loro una polemica comunicazione perché avevano osato riposarsi.

Il fine è alimentare una vergognosa lotta tra poveri, distogliendo l’attenzione dalle mancanze di una classe politica che non fa altro che foraggiare imprenditori e ceti abbienti, lasciando indietro i lavoratori e i poveri.

L’eliminazione del reddito di cittadinanza ha un’ulteriore conseguenza, oltre a quella di non garantire più un sostegno a quelle migliaia di cittadini che finora non hanno raggiunto la povertà estrema: rendere tali persone e le loro famiglie ostaggi di individui senza scrupoli che potranno costringerli così ad accettare condizioni di lavoro vergognose. Schiavitù e sfruttamento a ben vedere, se si considera dagli ultimi controlli effettuati, e non sono molti a causa della cronica mancanza di personale: più del 70% delle aziende è risultato non in regola, sia per quanto riguarda i contratti di lavoro sia per quanto riguarda le fondamentali norme sulla sicurezza e la tutela della salute nei luoghi di lavoro.

Conferma del disinteresse dei rappresentanti politici rispetto a questo tema arriva anche dalle novità in materia di contratti: la liberalizzazione quasi totale per l’utilizzo dei voucher, per i quali si innalza non solo il limite dei compensi annui, ma anche dell’età per alcuni settori come quello turistico, e per i contratti a termine, lasciando alla contrattazione collettiva, o se assente individuale, la determinazione delle ipotesi nelle quali è possibile utilizzare contratti a ventiquattro mesi e permettendo così alle imprese di esercitare la propria pressione su parti sociali e sindacati.

Questi ultimi, particolarmente deboli in alcuni settori, non rivendicano seriamente quella che è normalità in molti di quei Paesi a cui l’Italia ama paragonarsi, ossia un salario minimo, la cui mancanza espone chi lavora al rischio di stipendi da fame, oltre che instabilità.

Ricordiamo infatti che già alcuni mesi fa il governo si era chiaramente opposto all’introduzione di una retribuzione minima, disattendendo di fatto l’ennesimo invito comunitario a far convergere verso l’alto i salari base, assicurando a tutti i lavoratori condizioni dignitose: la giustificazione era stata la necessità di salvaguardare la peculiarità delle diverse realtà produttive italiane.

Addirittura per alcune tipologie di lavori si elimina il limite d’età per il contratto d’apprendistato: la parola d’ordine è dunque precarietà, mentre giovani e adulti vedono le proprie vite oramai piegate dalle sole logiche del profitto.

Ci si nasconde dietro all’avanguardia della flessibilità per celare in realtà mancanza di tutele e diritti per i lavoratori (mentre ci si chiede come mai non si facciano più figli!), senza rendersi conto che anche da un punto di vista economico e produttivo essa non ha sortito alcun effetto positivo negli ultimi anni.

Anche stavolta, dunque, la rappresentanza politica si è posta in un solco di completa sovrapposizione e continuità con i governi precedenti, adottando esclusivamente interventi transitori e non strutturali, e non facendosi carico di alcuna delle problematiche gravi del nostro Paese.

È chiara soprattutto la volontà di ingraziarsi le sole imprese, senza avere alcuna visione di lungo periodo: basti pensare alle dichiarazioni fatte subito dopo l’adozione del decreto lavoro, con le quali ci si vantava di aver già raggiunto risultati concreti. Se è vero che c’è stato negli ultimi mesi un aumento dell’occupazione rispetto allo scorso anno, questo è dovuto a una serie complessa di cause, tra cui la definitiva uscita dallo stato d’emergenza, e non, come Palazzo Chigi afferma, dal clima di fiducia percepito dalle imprese in questi primi sei mesi di governo.

Nulla di nuovo, dunque: precarietà, sfruttamento e disinteresse. E il decreto lavoro sembra darcene solo conferma.

Prec.

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