Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2021) mette la morte al centro della vita. La città, coi suoi grossi palazzi di vetro, è riuscita a dimenticare la morte. L’ha trasformata in una opzione cinematografica, in un abuso politico e sentimentale, ma i morti, nella loro tragica naturalità, li ha fatti sparire. Li ha ospedalizzati, ha nascosto le nonne ai nipotini, come se fossero qualcosa di sconcio. Nei paesi, invece, il dolore e l’agonia non si possono nascondere. Non si possono nascondere le erbacce che infestano i giardini, i cani senza padrone, i tetti feriti e i calcinacci che cadono. Le sedie vuote al bar. Non si può nascondere l’assenza. Ed è l’assenza a essere il fulcro della vita di Mengo, che da sempre ha avuto due passioni: le persone che vanno via e le pietre che muoiono. Che poi sono la stessa cosa.
All’anagrafe Ruscitti Domenico Giuseppe, Mengo è l’unico abitante rimasto a Scarciafratta, paese dimenticato sulla dorsale degli Appennini d’Abruzzo. È attraverso i suoi occhi malinconici e incantati che Remo Rapino ha scelto di raccontare quel sacrario italico che sono gli Appennini: un rosario di borghi sospesi tra nuvole e rocce, crinali e vallate, memoria e scordanza. Nella narrazione principale si intersecano lettere, quaderni di bambini, anamnesi, monologhi e un registro dell’Anagrafe pieno di nomi, date, nascite, morti e sposalizi. Testimonianze che raccontano un’antropologia montana formata da nomi improbabili, scemi del villaggio, vecchi tromboni, figli partiti per la guerra, preti innamorati e magare. Tante storie che assieme fanno una storia: quella del paese.
Un paese che però ha perso la sua gente e che, abbandonato, si sta sgretolando. Prima, l’esodo lento e amaro verso la città, verso le fabbriche, verso l’America. E poi, di colpo, la Cosa Brutta. Un sisma che ha svuotato Scarciafratta di ogni forma di vita, tranne per un vecchio cane peloso, Sciambricò. Mengo a volte si rivolge a lui, a volte alla Luna, a volte ai vecchi fantasmi che lo vengono a trovare. I pensieri si attorcigliano, i ricordi si confondono e le parole scivolano via dal foglio. Il passato e il presente diventano uno, e così ritornano Ninetta Incantalupo, l’amore della vita di Mengo, Bentivoglio Brunetto, il bambino riccio che gli chiedeva sempre una caramella, Spartachetto l’anarchico coi suoi discorsi di rivoluzione e libertà, o Cafiero Della Torre, l’Asino del Bellamore.
È stato il destino di tanti piccoli paesi montani, l’estinzione. Ne L’Italia Profonda – Dialoghi dagli Appennini, Franco Arminio e Giovanni Lindo Ferretti scrivono che per costruire una coltura di montagna, che è la materializzazione di una cultura, ci vogliono secoli, per distruggerla basta interrompere la quotidianità nel tempo di una generazione. È così che gli Appennini sono diventati terreni incolti, culle vuote e cimiteri pieni. Se ne lamentava già Pasolini nel 1960, e se ne lamenta Mengo, nelle sue dolorose invettive alla Luna: È che non c’è più nessuno qui alla Rocca […] Ma voi andate. Andate credendo di inventarvi un’altra vita e vi credete che siete padroni di tutto e, invece, siete padroni di niente, e fate finta di non saperlo. Mengo lo sa che nelle città ci sono i negozi, gli ospedali e le scuole per i bambini. Ma non ci sono l’erba, le capre belle, Ninetta Incantalupo, il pozzo con l’acqua buona; non ci sono le stelle, offuscate dalle luci neon, che poi che nome è neon, senza madre né padre. […] Campisanti di luci morte, sono le città.
La voce di Mengo si fonde a quella dei dialoghi dagli Appennini, in un unico lamento arrabbiato: sono andati tutti a vivere in città, in piccole case prese in affitto. Qui erano poveri ma liberi, lì sono poveri e schiavi. Siamo un popolo che ha reciso il suo legame arcaico con la terra, coi saperi antichi e con una dimensione ultima della vita umana, scandita dai tempi lenti delle stagioni e degli affetti profondi. Siamo un popolo che ha dimenticato che la sua Italia è anche fatta di alberi, alti crinali, nebbie d’autunno e manti di neve. Da ora et labora siamo passati a produci/consuma, da sradicati a sradicanti.
È per questo che le storie di luoghi e persone che non riescono a stare “al passo coi tempi” sono così importanti. Perché muovono una critica radicale all’accelerazione, alle smart city industriali e finanziarie, con la loro sola esistenza. Parlare di vecchi e di paesi non significa solo cercare esempi di disalienazione, autonomia e decelerazione, ma dare una risposta alla crisi intrinseca della nostra società. Significa ribaltare la logica di osservazione, non guardare più le Scarciafratte d’Italia come periferia, ma come centro di un nuovo umanesimo. Il margine al centro. I paesi sono oltre la decrescita, fuori dalla logica di costruire società e benessere: nei paesi non c’è una meta, un obiettivo da raggiungere, una scala da salire.
Sui paesi va puntato un faro, creata un’attenzione che però non sia omologante. L’Appennino ci deve interessare operoso ma anche inoperoso, ci interessa per quello che c’è ma anche per quello che non c’è. Non servono nuove bolle perfette ed efficienti, piene di b&b e attrazioni turistiche. Non ci serve la museizzazione dei paesi e dei monti, ci serve il loro Genius loci. Il Genius, per i romani, era uno spirito che incarnava e rappresentava l’essenza dei luoghi e che regolava le vite dei suoi abitanti. È tipico di ogni mitologia che rivendica il legame antico dell’uomo con l’ambiente. Ed è tutto lì, nelle descrizioni di Scarciafratta, paese che non esiste ma che in realtà è tutti i paesi. Nella sua lentezza, nel conoscersi tutti a vicenda, nei suoi ragazzini dispettosi, nelle sue vacche e nello sguardo di Mengo, fino alla fine innamorato della sua Rocca.
Nato tra i morti sui monti vivo sui monti tra i morti e non c’è lama che possa recidere la languida catena generazione su generazione. – G. L. Ferretti
Ci vuole coraggio, in ogni caso, a giocare con la memoria e con la scordanza. – R. Rapino