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Clint Eastwood: i novant’anni dell’Uomo senza nome

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 4 minuti
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Il prossimo 31 maggio, Clint Eastwood, l’Uomo senza nome dei film di Sergio Leone, compie novant’anni. E sarà al lavoro, come sempre, perché dal tempo degli spaghetti-western e dell’ispettore Callaghan delle pellicole con Don Siegel, di strada nel mondo del cinema ne ha fatta tanta, affermandosi come attore e regista, soprattutto con il film Gli spietati del 1992, diventando uno tra i più importanti autori dell’arte cinematografica.

Nato a San Francisco nel 1930, il ragazzo solitario, studente insofferente e amante della musica, non segue i familiari che si trasferiscono nel Texas e, a vent’anni, viene richiamato dalla United States Army. In seguito, per restare libero ed economicamente indipendente farà tanti mestieri, dall’operaio in una segheria al camionista fino al suonatore jazz di piano e tromba. In maniera casuale, dopo uno dei tanti provini, riesce a ottenere piccole parti nei B-movies nella seconda metà degli anni Cinquanta, diventando popolare nel ruolo del cowboy nella serie televisiva Gli uomini della prateria realizzata dall’emittente CBS.

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Nel 1964, la svolta decisiva della sua carriera come attore avviene quando il grande regista Sergio Leone lo chiama per il western all’italiana Per un pugno di dollari. Nasce così il mito dell’Uomo senza nome, il protagonista della pellicola che indossa il poncho e ha il sigaro tra le labbra, interpretato da un attore-maschera che diventerà un volto familiare nel mondo del cinema, anche grazie agli altri due film girati con Leone: Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Soltanto qualche anno più tardi, la trilogia arriverà negli Stati Uniti, decretando il successo internazionale di Clint Eastwood.

Un’altra svolta importante sarà l’incontro artistico e umano con Don Siegel, regista dal grande mestiere con il quale, negli anni Settanta, girerà i film legati alla figura dell’ispettore Callaghan. Entrambi riceveranno tante critiche, per la violenza – definita eccessiva, reazionaria – rappresentata nella descrizione delle maniere forti usate dalla polizia nei confronti dei criminali allo scopo di ristabilire il rispetto della legge. Una tematica sensibile, che si ripropone negli States da tempo – è di questi giorni il tragico caso dell’uccisione del cittadino afroamericano George Floyd nello stato del Minnesota – fino alla più recente attualità.

Con Fuga da Alcatraz del 1979, invece, entrambi si riscatteranno e da allora Eastwood impersonerà soprattutto il ruolo dell’eroe americano che combatte contro un mondo che tradisce il sogno americano di libertà e giustizia. Senza percepire, o riuscendo a coglierla in maniera ambivalente e confusa, la contraddizione insita nel fatto che la violenza è sistemica, prodotta da quella società reale che agisce al di là delle leggi formali adottate anche dalla grande democrazia a stelle e strisce.

Il successo popolare, in effetti, permette a Eastwood, insofferente da sempre alla Hollywood dello star system, di creare la Malpaso Company, la casa di produzione che gli farà raggiungere l’indipendenza produttiva e creativa, e di consolidare la carriera di regista proprio quando sembrava tramontare la sua popolarità come attore. E dopo un ventennio di buoni film come, tra gli altri, Lo straniero senza nome (1973) e Il cavaliere pallido (1983), nei quali interpreta un personaggio simile al Man With No Name della Trilogia del dollaro, arrivano finalmente l’Oscar nel 1993 a Gli spietati e la definitiva consacrazione artistica.

Soltanto due anni più tardi, il trionfo dell’Oscar alla carriera e, in seguito, ancora due statuette con Mystic River (2003), un film dove l’autore rappresenta l’insensatezza della sopraffazione e della violenza societaria, e Million Dollar Baby (2004), celebrazione filmica della valenza affettiva che può esistere tra maestro e allieva, esseri umani uniti da un legame elettivo, ma sopraffatti dal disordine del mondo che nessuna regola, nello sport e nella vita, riesce a contenere.

Con Gran Torino del 2008, infine, la celebrazione del cinema di Eastwood, dove il rigore estetico si sposa con il contenuto etico che si rappresenta in personaggi – come il rude Kowalski interpretato dallo stesso regista – dalle psicologie tormentate e dalle esistenze passate a cercare di espiare la colpa di voler vivere restando fedeli ai propri ideali in una società che va in una direzione contraria.

Nella vasta filmografia del regista di San Francisco, ci piace ricordare altri titoli come Un mondo perfetto (1993), dove è ancora più evidente il drammatico gap tra idealismo personale e crudeltà della vita sociale, e i due film Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (2006), in cui Eastwood cerca di rappresentare la stessa famosa battaglia della Seconda guerra mondiale – e le stesse sofferenze, con la generale sconfitta umana e storica – dal punto di vista degli americani e da quello dei giapponesi.

Negli anni più recenti, il vecchio Clint ci sta raccontando storie di eroi per caso, con esiti diversi per i contenuti più che per la consolidata forma registica, girando Sully (2016), Ore 15:17 – Attacco al treno (2018), The Mule (2018), e Richard Jewell (2019). Anche in queste opere, l’infaticabile Eastwood mostra di credere ancora nel sogno di libertà e giustizia quotidianamente tradito. Tra qualche giorno, intanto, l’Uomo senza Nome compirà novant’anni, ma da tempo è diventato un nome importante nella storia del cinema e un artista senza età.

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