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“C” come cartolina – prima parte

Redazione di Redazione
5 Agosto 2021
in Rubriche
Tempo di lettura: 4 minuti
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Sono in vacanza al mare, e il mare non mi piace, ma l’aria e lo iodio fanno tanto bene ai più piccoli. Dicono. Ieri, al mare, ho ricevuto una cartolina, di quelle che si spedivano dalla villeggiatura. Erano secoli che non ne ricevevo una. Me l’ha spedita un mio amico da Pozza di Fassa, Trentino Alto Adige, il luogo dove è nato il mio amore infinito e irrinunciabile per la montagna.

Nelle Dolomiti sono di casa, ma molte valli, borghi e rioni mi appaiono ancora irraggiungibili e misteriosi. La cartolina riproduce le cosiddette “vedutine”: uno scorcio del Catinaccio, la piazza del paese da tre diverse angolature, un rocciatore impegnato in un’ascensione. Se da Pozza di Fassa ancora si spediscono cartoline, magari vi si beve ancora il tamarindo, vi si ascolta ancora il juke-box. Provo contemporaneamente attrazione e turbamento, forse sto sognando, oppure morendo e, come si dice avvenga, sto rivedendo il mio passato in pochi istanti. C’è davvero un’Italia incantata e felice su cui fissare lo sguardo? Un mondo antico di campanili e alpeggi, piazze e terrazzamenti, chiese e acquasantiere, animali al pascolo, poesie, biciclette, giardini, granite, angurie, spiagge, prati, sagre paesane?

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Il mio amico mi ha scritto da un lembo lontano della geografia o della storia? Davvero, una volta, c’erano le cartoline, c’era l’Italia, c’era la bella vita? Perché, se tutto questo c’è ancora, bisogna raccontarlo. Foto? Social? Per la scelta del canale giusto mi viene in aiuto Italo Calvino che tra il 1949 e il 1967 scrisse Gli amori difficili, un’opera minore, interessante per lo studio psicologico dei personaggi. Si parla di persone comuni e, nonostante i titoli roboanti dei racconti, sono descritte piuttosto le piccole esperienze individuali, le ansie interiori, vissute intimamente. Proprio i particolari minimi che costruiscono le storie consentono a Calvino di indagare argomenti che riguardano la società in cui tuttora viviamo. E si parla di fotografia ne L’avventura di un fotografo che è uno dei racconti più intensi del volume: Antonino Paraggi è un impiegato che osserva con livore e diffidenza la smania di chi fotografa tutto, dal sorriso dei figli alla posa delle consorti, dalle tavolate con gli amici ai panorami dei luoghi visitati.

Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, e che quindi per vivere bisogna davvero fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia. Anche se Calvino stila i suoi racconti in un’epoca in cui la fotografia è ancora analogica, la sostanza del gesto è la stessa di oggi. E non sfugge l’analogia con il voyerismo che corrode i social network.

In un museo, a un concerto, ovunque continuiamo a scattare con il nostro smartphone, illudendoci di portarci a casa un pezzetto di ciò che è successo, pensando che resisterà al tempo, come se, documentando ogni momento dell’esperienza, questa non potesse più cancellarsi. Siamo divorati dalla pulsione di usare la fotocamera del nostro cellulare e scattare foto, di documentare tutto ciò che ci accade. Potere dei social network: fotografiamo tutto per poterlo condividere con chi ci segue e con lo scopo narcisistico di esibire una vita bella, appetibile, piena di fatti eccezionali e di esperienze invidiabili.

Proviamo a chiederci se la fotografia è l’unica pratica che soddisfi un’esigenza umana tra le più essenziali: la necessità di ricordare. Non a caso, il luogo virtuale in cui i nostri smartphone immagazzinano le foto e i documenti si chiama proprio memoria. E a questa memoria fatta di codici che non capiamo e a cui tuttavia affidiamo le nostre foto attribuiamo la responsabilità di ricordarci: che cosa abbiamo fatto, chi abbiamo incontrato e, alla fine, chi siamo. La fotografia, dunque, diventa prima di tutto l’immagine stessa che abbiamo di noi.

La fotografia, suggerisce Calvino, fissa momenti che altrimenti rimarrebbero in balia dell’inconsistenza e della friabilità dei ricordi.  Lo scrittore ci ricorda che la memoria non è un registratore fedele della realtà e dell’identità, ma è una sua interpretazione sempre in evoluzione, sottoposta a trasformazioni continue. E se la commemorazione è celebrativa, solenne, univoca, la memoria deve essere labile, incerta, sfuggente. In altre parole, Calvino ci suggerisce di ritrovare un contatto immediato con il mondo di immagini libere che ci circondano e con la percezione che abbiamo di noi stessi immersi in quel flusso.

Quindi, non userò la fotografia per raccontare l’Italia bella di quest’estate e la bella vita che la popola. No, per raccontare è meglio che proviamo a fare un film, e lo facciamo insieme, magari con un concorso e con un bel premio in palio. Ma di questo parliamo nel prossimo articolo, dal titolo: “C” come cinema.

Contributo a cura di Ernesto Aufiero (Contame)

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