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Antonio Gramsci e l’ideale dell’uomo libero prigioniero

Giusy Santella di Giusy Santella
25 Maggio 2020
in Billy
Tempo di lettura: 5 minuti
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Ottantatré anni fa, il 27 aprile 1937, nella clinica di Roma dove era ricoverato dal 1935 in stato di detenzione, moriva Antonio Gramsci. Pensatore eccelso, filosofo, critico letterario, segretario generale del Partito Comunista Italiano, dedicò la sua intera vita alla lotta politica e all’obiettivo di costruire uno Stato operaio. Furono proprio i suoi ideali e gli scopi cui volse completamente la vita a costargli la libertà poiché la persecuzione fascista si abbatté su di lui con l’obiettivo di annientarlo mentalmente e politicamente.

Le lettere scritte dal carcere ai suoi cari, poi raccolte in moltissime edizioni in questi anni, permettono non solo di ricostruire il suo periodo di detenzione, la sua trasformazione e il suo stato d’animo da prigioniero, ma consentono anche di ricostruire moltissimi aspetti della sua vita. Gramsci divenne, infatti, un ottimo biografo di se stesso, inserendo nei suoi scritti particolari mai emersi prima seppur con il pudore di chi sapeva che su tutto ciò che lo riguardava sarebbe stata operata una censura.

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Nonostante la consapevolezza che le sue lettere non sarebbero rimaste private, emerse in esse la sua parte più autentica e per questo più fragile. Come tutti coloro che vivono uno stato di detenzione, anche Gramsci si trasformò inesorabilmente e quell’isolamento a cui non era mai stato abituato lo rese ossessionato dall’idea di perdersi particolari della vita dei suoi cari, dei suoi figli, di cui avrebbe voluto seguire la formazione, della madre, dei fratelli. Chiese così di ricevere più lettere, più racconti, chiese insomma di colmare quel vuoto che il carcere crea tra il detenuto e i suoi affetti.

Numerosi, nelle sue missive, furono i richiami alle sue radici e al paesino di Ales in cui aveva trascorso l’infanzia e in cui si era già espressa la sua ribellione contro i ricchi, lui che nonostante fosse stato un bambino brillante aveva rischiato di non poter studiare a causa delle difficoltà economiche in cui era finita la famiglia per una triste vicenda giudiziaria che aveva coinvolto il padre. Il desiderio di appiattire le differenze sociali e di creare un vero Stato operaio lo accompagnarono per tutta la vita. Avendo come esempio la Rivoluzione Russa del 1917, ebbe sempre come obiettivo la diretta solidarietà al proletariato, ricordandosi che esso non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette; vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d’amore. Dunque, un’ansia di rinnovamento sociale e culturale, un’esaltazione delle masse che si esprime nel movimento operaio che non necessita di mera tutela paternalistica.

Gramsci volse completamente la sua vita e i suoi studi a una lotta che avesse come obiettivo la trasformazione del movimento operaio in un blocco storico antagonista a quello borghese, con la visione di una lunga guerra di posizione come risolutiva. Obiettivo che non abbandonò neppure in carcere, dove raccolse i suoi studi in trentatré Quaderni, avendo cura di operare su di essi una vera e propria riforma crittografica che li salvasse dalla censura carceraria. Dunque, il fine della sua detenzione, impedire a questo cervello di funzionare per vent’anni, non fu mai raggiunto, mantenendo il pensatore lucidità e coerenza, anche nei momenti delle sue sofferenze fisiche più dure, incarnando l’ideale dell’uomo libero prigioniero. Non sarà infatti mai possibile incatenare gli ideali di Gramsci e quel cervello indubbiamente potente cui si riferiva Mussolini con una buona dose di preoccupazione.

Attraverso le Lettere dal carcere è possibile seguire tutto l’iter detentivo di Gramsci e le sue traduzioni in innumerevoli istituti, fin dal novembre 1926, accompagnando il prigioniero nella sua inesorabile trasformazione che emerge negli stessi toni e nello stile della scrittura. Inizialmente, infatti, anche il carcere è vissuto in maniera propositiva e lo stesso confinamento a Ustica lo rende entusiasta delle esperienze di vita che lo aspettano. Durante il primo periodo si definisce un viaggiatore singolare, più che un recluso. Successivamente, la detenzione lo rende più schivo, più cupo e lo stesso stile diventa tagliente e nervoso: il lettore, attraverso le epistole, si inoltra nello stesso tunnel imboccato da Gramsci e si rende conto che la luce intravista all’inizio del percorso si fa giorno dopo giorno sempre più fievole, fino a spegnersi.

La stessa concezione dell’amore che per lui non è tale senza comunità di intenti e di ideali, lo abbandona e il suo rapporto epistolare con Giulia Schucht, la giovane musicista russa che Gramsci aveva sposato nel 1923, si affievolisce, perde di autenticità e il politico sardo giunge a pensare di volerla liberare dal loro vincolo, perché essa ridiventi la donna magnifica che era. Una parte di me stesso, senza la quale mi sento sospeso in aria, come lontano dalla realtà: questa visione della madre dei suoi bambini lo abbandona, così come pian piano abbandona se stesso, confessando solo negli ultimi anni di vivere un logorio delle energie vitali, perdendo il controllo di impulsi e istinti elementari di temperamento.

La mia vita scorre sempre uguale, mangio, leggo, dormo e penso. Non posso fare altro: pur nella consapevolezza della sua condizione, Gramsci non perderà mai quella fiamma che gli ardeva dentro e che lo spingeva, seppur in carcere, ad agire come un vero militante, i cui doveri possono essere compiuti solo nell’interesse del proletariato mondiale. La sua passione e il suo impeto, il rifiuto di qualsiasi forma di indifferenza: ciò lo caratterizzerà fino all’ultimo dei suoi giorni, ricordando che il carcere è una cosa bruttissima, ma lo sono ancora di più vigliaccheria e disonore; ciò che conta è la mia posizione morale.

Una tale rettitudine e consapevolezza che lo spingono a definire la richiesta di grazia, cui i suoi cari vorrebbero indurlo, come una forma di suicidio. Uccidere i propri ideali equivale dunque a uccidere sé stesso. Un pensiero attuale, quello di Gramsci, un uomo che ci insegna molto più di quello che siamo in grado di apprendere sui libri, che ci invita ad amare gli altri, la storia e le loro lotte poiché, come ricorda in una lettera al figlio Delio, tutto ciò riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa.

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