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Addio a Pelé, culto e letteratura

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
30 Dicembre 2022
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Un ragazzino di sedici anni, ma più maturo di un vecchio. Forte del dribbling, rapido e duro nei contrasti, capace di correre i cento in undici secondi netti, con uno stacco di testa talmente imperioso da fare il solletico alle nuvole coi capelli e strafottersene dell’altezza. L’unico giocatore che vidi vincere la legge di gravità. E nuotare nell’aria. Dopo la finale del 1950, ancora bambino, aveva promesso al padre in lacrime che quella coppa d’oro l’avrebbe conquistata per lui; inutile continuare a disperarsi tanto. Pelé, la Perla Nera.

È culto e letteratura ciò che accompagna l’immagine o, per meglio dire, il mito di Edson Arantes do Nascimento, Pelé. Forse perché dei suoi 1281 goal in 1363 partite, dei suoi dribbling a passo di samba, dei suoi colpi di testa che lambivano il cielo si conservano poche immagini a colori sbiaditi. Così, come per ogni religione che si rispetti, il verbo si tramanda di voce in voce attraverso i tempi. E, statene certi, di qualsiasi magnificenza abbiate potuto udire, per quanto più simile a un’invocazione divina che al racconto profano di un uomo in scarpe da calcio, non sarà stata retorica o persino enfatica.

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Poche altre cose, in Brasile, si elevano a simbolo dell’intera nazione, dell’intero popolo carioca: il Cristo del Corcovado, la samba, il carnevale… e il futebol. Pelé, O Rei, le racchiudeva tutte contemporaneamente, con quel suo modo elegante e leggero di essere il più forte. Una carriera, la sua, sbocciata sin da bambino, il predestinato che, come promesso al papà pochi anni prima (nella melodica ricostruzione in apertura tratta da È finito il nostro Carnevale, di Fabio Stassi), avrebbe regalato al Brasile la sua prima Coppa del Mondo a soli diciassette anni e poi ancora nel 1962 e nel 1970. Manco a dirlo, l’unico a riuscire in una simile impresa.

Una vita dedicata al pallone, al Santos, trionfante per ben dieci volte nel campionato Paulista, quattro nel Torneo Rio-San Paolo, sei Campeonato Brasileiro Série A e cinque Taça Brasil, e campione, due volte, nella Copa Libertadores, il primo sogno in cui impara a credere qualsiasi ragazzino che nasce tra i vicoli del Sud America.

Tutti volevano vedere giocare Pelé e molti club europei avrebbero voluto acquistarlo. Ci riuscì l’Inter di Angelo Moratti, nel 1958, ma quel trasferimento non si completò mai a causa di un agguato che i tifosi del Santos compirono nella notte ai danni del Presidente della loro squadra. Così, il Brasile – sotto la dittatura della giunta militare – lo dichiarò bene nazionale, e dunque legato per sempre al proprio Paese.

Erano gli anni, in Europa, della swinging London, dei Beatles e, proprio come il celebre quartetto di Liverpool, quella che ai tempi era considerata la squadra più forte del mondo organizzò un vero e proprio tour attraverso i cinque continenti per mostrare a chiunque la propria stella. La folla che riempiva gli aeroporti e le strade a caccia di una foto con i Fab Four era la stessa che, dai Caraibi fino all’Australia, seguiva la Perla Nera anche solo per poter affermare di averla vista davvero.

Il mito di O Rei è rimasto il miracolo più grande della storia del calcio fino al Mondiale del 1986, quando un altro sudamericano, l’argentino Diego Armando Maradona, in Messico scrisse la storia de la mano de Dios. La volontà divina non era più solo verbo, si manifestava. Eppure, anche se tanti, negli anni, hanno dibattuto su chi sia stato il più forte di sempre a calcare un campo di calcio, Pelé e Maradona ridevano di quel dualismo come probabilmente i vari nomi che le religioni attribuiscono a Dio si fanno beffe di quanti si affannano a voler dare una definizione a qualcosa di tanto inafferrabile.

L’addio di Pelé, a due anni da quello prematuro di Diego, è l’ultimo capitolo di un calcio romantico che non c’è più, di un calcio sinonimo soprattutto di passione popolare, di rappresentanza, di rivendicazione politica e di ideali. È l’addio di un uomo gentile, dal sorriso elegante come i suoi dribbling, un momento che segna la storia di un intero sport ma anche di una nazione, il Brasile, che vede oggi la propria bandiera sbiadirsi di qualche tonalità e la samba abbassare il volume della propria festa mai doma.

L’eredità che lascia Edson Arantes do Nascimento, scomparso ieri all’età di ottantadue anni, non è solamente una medaglia sportiva, è amore. Culto e letteratura. È finito il nostro Carnevale, stavolta, chissà, per davvero.

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