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Quitting economy: lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Chiara Barbati di Chiara Barbati
17 Novembre 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 5 minuti
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Quello del posto fisso, del lavoro sicuro e dello stipendio stabile è stato un mito di quelli che sembravano intramontabili. Almeno finché il lavoro non fosse diventato una certezza per tutti. E, dato che a questo punto non ci siamo proprio, è davvero strano che nell’era del precariato sempre più persone decidano di lasciare la propria occupazione. Si chiama quitting economy ed è quel fenomeno secondo cui il posto fisso non è più l’unica condizione necessaria nella scelta di un impiego poiché si aggiungono nuovi parametri di valutazione, dalla salute all’equilibrio tra vita privata e vita professionale.

Non dovrebbe sorprendere che nel nostro capitalistico universo più si lavora meglio è – per i datori, ovviamente. E questa forma di ipersfruttamento, venduta come il prezzo da pagare per avere una situazione di stabilità economica, è più o meno comune a tutto il mondo occidentale. Che le aziende e i datori di lavoro in generale sfruttino i propri dipendenti oltre l’umana decenza non è certamente un segreto, né una novità, sebbene le modalità siano cambiate nel corso del tempo. La novità, invece, sta nella quantità crescente di persone che a queste condizioni non vuole lavorare e che rende sempre più esigenti i propri parametri di scelta.

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La quitting economy riguarda principalmente la popolazione occidentale e la fascia di lavoratori sotto i quarant’anni. Non riguarda, dunque, solo l’Italia: il fenomeno si sta espandendo ovunque. Per esempio, secondo i dati raccolti dal New York Times, negli Stati Uniti nell’ultimo periodo sono stati circa 4 milioni i lavoratori che si sono licenziati ogni mese. I motivi sono molteplici e riguardano la necessità di trovare un maggiore equilibrio tra la vita professionale e quella privata, il desiderio di lavorare in luoghi che garantiscano maggiore giustizia sociale, salari adeguati, nessuna discriminazione, sicurezza sul lavoro o anche, semplicemente, la salvaguardia della propria salute – soprattutto mentale – che impieghi stressanti che non concedono sufficienti ore di riposo minacciano seriamente. Non è un caso, dopotutto, l’aumento del fenomeno del burnout, quello che erroneamente definiremmo un esaurimento, ovvero un blackout emotivo, fisico e mentale dovuto a una smisurata mole di incarichi. L’OMS lo classifica come una vera e propria sindrome dovuta a un eccessivo stress lavorativo che corpo e mente non riescono a sostenere a tal punto da doversi fermare.

La quitting economy pare essere in continua crescita, con numeri sempre maggiori di persone che scelgono di dedicarsi ad attività lavorative diverse e che richiedono meno ore anche a costo di subire svantaggi economici. Le dimissioni registrate dal Ministero del Lavoro nel secondo trimestre del 2021 sono infatti 484mila su 2 milioni e mezzo di contratti cessati. I dati registrano un incremento dell’85% rispetto allo stesso periodo del 2020.

Che non si dica, però, che a licenziarsi siano le più giovani e scansafatiche generazioni che, adagiate sugli allori di un benessere più ampio dei propri predecessori, hanno la possibilità di prendere questa decisione perché certe delle ricchezze che hanno alle spalle. Se c’è una generazione che conosce il precariato e lo sfruttamento come nessun altro sono proprio i giovani d’oggi, proprio quelli della fascia 25-40 che, dopo aver faticato ben più di sette camicie per trovare un lavoro appagante, scoprono che di appagante, nello sfruttamento, non c’è niente.

Nei classici lavori di oggi, l’orario è certamente il primo problema. Non è solo il fatto che la giornata di otto ore derivi dal superato retaggio del proletariato urbano – non esattamente un esempio di lavoratori con una vita serena, libera dallo sfruttamento –, ma anche e soprattutto il fatto che a lavorare davvero in turni di otto ore siano in pochi. Se a richiedere straordinari anche prima della pandemia erano in tanti, da quando l’emergenza sanitaria ha imposto lo smart working, lavorare al di fuori del normale orario d’ufficio è diventata ormai una consuetudine. E se per il personale sanitario – i più frequenti job quitters – l’aumento delle ore di lavoro si deve proprio all’emergenza in atto, lo stesso non vale per i dipendenti del settore privato. In realtà, non è che prima quello sanitario fosse particolarmente attento alla salute dei propri dipendenti: sono anni che mancano i medici e il personale qualificato nei pronto soccorso poiché è il settore meno tutelato e sempre più persone rinunciano a uno stile di vita che da vivere non lascia granché.

Ma se nemmeno la salute di chi dovrebbe essere abbastanza riposato e lucido da curare le altre persone interessa a questo malsano sistema, figuriamoci quanto deve importare ai privati. Dopotutto, proprio perché il massimo guadagno dal minor impiego di risorse possibili pare essere l’obiettivo di ogni azienda, lo sfruttamento a oltranza non è, in realtà, il modo migliore per intensificare il profitto. Sono, infatti, numerosi gli esempi di aziende che, abbassando l’orario lavorativo a cinque o sei ore o diminuendo la settimana lavorativa a quattro giorni, hanno riscontrato un incremento nel rendimento dei lavoratori. Per questo, in molti Paesi – non in Italia, ci mancherebbe – la quitting economy sta portando tante realtà a sperimentare una riduzione dell’orario di ufficio parallelamente all’aumento dello stipendio medio. Certo, sarebbe stato più piacevole se tali cambiamenti fossero avvenuti per il benessere generale dei cittadini e non in seguito ai licenziamenti dei lavoratori esauriti, però sempre meglio di niente.

È difficile, tuttavia, fare un discorso del genere in Italia, anche al netto della crescita della quitting economy. D’altra parte, il nostro Paese è l’unico in tutta Europa in cui i salari non solo non sono aumentati rispetto al 1990, ma sono addirittura diminuiti. E se lo stipendio medio in Italia è inferiore a quello di trent’anni fa, sebbene il costo della vita sia naturalmente aumentato, e se il precariato costringe i giovani ad accettare lavori sottopagati e a barcamenarsi tra più di un’attività per racimolare i soldi che spesso neanche bastano per vivere, come lo si spiega ai datori di lavoro che forse, diminuendo le ingiustizie e comprimendo l’orario di attività, si rende anche meglio?

Ma il punto non è neanche tanto questo, non è la necessità di rendere di più o meglio in un mondo a cui importa solo il profitto, quanto invece la consapevolezza che, certo, lavorare è necessario tanto al singolo quanto alla collettività poiché permette all’individuo di vivere e alla società di produrre abbastanza da sopravvivere, ma non deve essere l’unico scopo della vita. Al contrario, dovrebbe essere un modo per vivere dignitosamente e serenamente. È forse il caso di superare la retrograda convinzione secondo cui il lavoro nobilita l’uomo – le persone, in generale – e ricordare che non si vive per lavorare, che non si respira solo per avere la forza di produrre qualcosa, ma per vivere una vita serena, piena anche di tutto il resto.

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