Avete mai provato a definire l’orrore dell’adolescenza? L’esperienza violenta di un corpo che cambia e si sente cambiare? Potremmo condensare così Mandibula, romanzo viscerale della scrittrice ecuadoriana Mónica Ojeda in uscita il 26 febbraio per Polidoro Editore. Eppure, se lo facessimo, lasceremmo fra le pieghe del non detto qualcosa di fondamentale: l’opera di Ojeda è un abile amalgama di favola gotica, horror creepypasta, romanzo di formazione a rovescio, interrogazione costante sul divino, sull’animalità della natura umana, sul peso che hanno l’incubo e il subconscio nella definizione delle nostre verità. Al centro del romanzo, l’esplorazione e l’estasi nella violenza delle adolescenti Fernanda e Annelise, studentesse presso una scuola privata cristiana.
Le protagoniste provengono da famiglie agiate e godono, nell’agio, del privilegio di una vita annoiata, priva del conflitto tra desiderio e possibilità di soddisfarlo. Le madri di Fernanda e Annelise sono specchio alienato del loro futuro in potenza: donne insoddisfatte, prosciugate, soffocate dalla maternità. Donne che esercitano il beneficio del loro status per soffocare altre donne nel diritto di disporre dei propri corpi schermandosi dietro lo scudo della fede in Dio e nella Vita. Il contatto e il rapporto con la madre è uno dei temi focali del libro.
La ribellione delle ragazze alle genitrici è anzitutto rifiuto di lasciarsi ridurre a femmine: come afferma Andrea Long Chu nel suo saggio, la femmina è sempre oggetto di desiderio e mai soggetto desiderante; sempre preda e mai cacciatore; sempre sacrificata. Entrambe, però, avvertono nei propri corpi il tumulto di una trasformazione mostruosa che, invece, li impregna di desiderio e fa sentir loro per la prima volta una sorta di vigore elettrico, una volontà di potenza di sottomettere il mondo al proprio volere. Al contempo quei corpi impavidi, febbrili e straripanti di vita vengono sottomessi dall’occhio sociale della libido maschile, che ne scruta rapace le rotondità sboccianti e li castiga minacciando violenza.
Il lettore intuisce la presenza di questa struttura patriarcale, eppure le figure maschili e paterne sono quasi del tutto assenti dal romanzo. Nonostante siano gli uomini a occupare una posizione di supremazia – nel contesto cristiano-borghese del testo, le famiglie sono di stampo tradizionale e ruotano intorno al modello della centralità e dell’onnipotenza paterna – questi ultimi appaiono tra le pagine solo sotto forma di osservatori silenziosi. Ne è un esempio l’analista di Fernanda, i cui interventi durante le sedute sono rimpiazzati da puntini sospensivi. Fernanda si trova in terapia per aver commesso un fratricidio di cui non serba alcun ricordo. Ecco che il maschio piccolo, ancora dipendente per la propria sopravvivenza dal nutrimento materno, dalla figura della madre, cade preda della mandibola di sua sorella.
Mandibola è il titolo del libro e, dunque, la mandibola assume un potente significato simbolico nelle fantasie di morte delle due adolescenti. Per Annelise, dotata di un’immaginazione feroce, la mandibola è manifestazione del divino. Una divinità soprannominata Dio Bianco che è rovesciamento dell’ordine costituito, capace per questo di metterne in mostra gli aspetti conflittuali, le psicosi. Se nel mondo reale le persone si affidano all’idea di Dio per trovare conforto, per scorgere e contemplare nel mondo la bellezza e la giustizia di un bene supremo, il Dio Bianco di Annelise è conferma di caos: nell’universo (l’immensa, galleggiante carcassa di Dio) non c’è Amore perfetto: quando viene meno l’idea del bene e del male, l’unica cosa che rimane è la natura e la sua violenza. Nel culto del Dio Bianco, il caldo rifugio del grembo materno si muta in una mandibola irta di denti: in grado di proteggere il cucciolo dal mondo esterno, ma anche di dilaniarlo e inghiottirlo, di farlo disnascere.
Accomunate dal destino di essere donne, madri e figlie si scontrano per il predominio della mandibola: la natura delle figlie era saltare sulla lingua materna tenendosi salde per mano; sopravvivere alla mandibola per diventare la mandibola, prendere il posto del mostro, ossia della madre-Dio che dava inizio al mondo del desiderio. In questo rovesciamento dominato non dall’amore, ma dal Thanatos, una sorella è l’opposto di un fratello: è un’alleata contro l’origine. Fernanda e Annelise si sono scelte come sorelle e, insieme, mordono, aggrediscono il mondo coi denti. Il mondo delle due adolescenti è, plausibilmente, la scuola. Ed è proprio tra le mura scolastiche che dimora il personaggio più originale di Ojeda, quello che permette di collocare Mandibula tra le fila della grande letteratura weird, di proiettare il romanzo nella dimensione onirica dell’incubo: la professoressa Clara.
Clara, il cui viso anonimo è sostenuto – manco a farlo apposta – da un’imponente mandibola, insegna letteratura e ha preso a insegnare non per vocazione, ma per imitazione. Sin dalla nascita, ha vissuto una profonda immedesimazione nella madre Elena. Quest’ultima ha respinto con orrore l’amore totalizzante della figlia, finendo, però, per restarne letteralmente schiacciata. Ancora una volta, il rapporto con la madre si rivela nella sua natura crudele: nel caso di Clara, però, la figlia inghiotte la madre, la incorpora, ne veste gli abiti. Ojeda pone molta cura nell’identificare il nesso tra il ruolo materno e quello dell’insegnante. Come una madre nutre e si prende cura dei corpi dei figli, un’insegnante nutre le menti delle alunne, dando in pasto alle loro bocche voraci pezzetti di sé. Da una lezione di Clara su Moby Dick e sui mostri della letteratura classica, Annelise partorisce il suo Dio Bianco e converte le amiche al suo culto. Sono tutte in “età bianca”: il bianco è assenza di colore, indefinitezza, potenza inespressa sempre sul punto di corrompersi.
Annelise, sacerdotessa di una divinità che è pura manifestazione d’orrore, corrompe le sue amiche durante i lunghi pomeriggi trascorsi a raccontarsi storie di paura in un edificio abbandonato. Mano a mano che la finzione diventa reale, mano a mano che l’incubo confezionato da Annelise perde i contorni del sogno e comincia a farsi manifestazione, anche il luogo prediletto dalle ragazze cambia, il bianco delle pareti si gonfia d’acqua e si macchia di muffa, le sue mura contengono una eco sinistra, mistica. Per dirla con Mark Fisher, ci troviamo davanti alla sensazione pura dell’eerie: una strana inquietudine generata da qualcosa che infesta un posto in cui non dovrebbe trovarsi.
L’eerie s’accompagna al weird che è, invece, la sensazione opposta: lo scoprire sepolto da qualche parte (dentro noi stessi o nell’ambiente che ci circonda) qualcosa di strisciante, mostruoso e informe che non avevamo mai notato prima e alla cui rivelazione non possiamo sopravvivere incolumi. È la sensazione che permea gli scritti di Lovecraft e che Annelise replica nella sua saga dell’orrore bianco. Con Lovecraft Annelise condivide un’altra somiglianza: se lo scrittore è stato in grado di offrire ai propri lettori quel brivido perturbante, lo si deve in parte alla sua invenzione del Necronomicon, un antico volume la cui autenticità viene legittimata, attraverso gli scritti lovecraftiani, da una sua presenza solo in forma di frammento. Annelise raggiunge lo stesso effetto raggruppando le sue creepypastas legate alla saga del Dio Bianco su un sito web che esiste solo per citazione. Quest’illusione, quest’incubo irto di denti, è capace, così, d’insinuare l’orrore bianco nella mente del lettore e lasciarlo avvinto. La sospensione dell’incredulità è talmente completa da esercitare suggestione.
Lacan aveva ragione quando affermava che la verità ha sempre struttura di finzione, sentenzia lo psicanalista di Fernanda nella sua, forse, unica battuta. Così, tornando con il perturbante che infesta il reale, il romanzo di Ojeda può dirsi compiuto: le mandibole dell’incubo si chiudono a scatto. Tutto intorno è buio. E bianco.