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70 suicidi in dieci mesi: il mondo penitenziario chiama, nessuno risponde

Giusy Santella di Giusy Santella
18 Ottobre 2022
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Il mondo penitenziario appare, per la maggior parte delle persone con cui parliamo, qualcosa di lontano, di alieno, su cui nessuno sembra interrogarsi. Eppure questo che è oramai alla fine potrebbe definirsi uno dei peggiori anni per chi il carcere lo vive quotidianamente, perché vi è detenuto o perché ci lavora, e per quella piccola parte della società civile che su di esso si sforza di attirare l’attenzione, con risultati che probabilmente diventeranno sempre più flebili se si pensa agli esponenti politici attualmente alla ribalta.

Basterebbe, tuttavia, uno sguardo veloce ad alcuni dei dati emersi solo negli ultimi giorni per allarmarsi e per chiedersi se possiamo realmente definirci un Paese civile. Si tratta di problemi che hanno radici lontane, nella stessa concezione del carcere e del mondo penitenziario in Italia, e che sono esplosi durante la pandemia, quando le condizioni gravissime degli istituti sono state chiarissime a tutti, e tutti sono rimasti immobili.

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Basti pensare ai dati dei suicidi fino a oggi: 70, il più alto tasso registrato prima. Questo significa che ben settanta persone hanno chiesto aiuto, invano, e noi tutti ci siamo girati dall’altra parte. E che probabilmente, nella maggior parte dei casi, queste persone non avrebbero dovuto essere lì, nelle loro celle, senza che nessuno si facesse carico del loro disagio. Settanta, e non sono trascorsi neppure dieci mesi.

Un numero assoluto così alto si era registrato solo nel 2009, quando nell’intero anno ben 72 persone si tolsero la vita in carcere. Ma questo maledetto 2022 non è ancora finito e il tasso risulta già più elevato se si pensa che allora gli istituti contavano circa 10mila unità in più, prima, per intenderci, che fossero attuate pesanti misure deflattive su spinta della CEDU.

Il numero di suicidi ci racconta di un malessere che pervade il mondo penitenziario e che rimane inascoltato. Inascoltate come le grida delle vittime di violenze istituzionali mai portate allo scoperto. Negli ultimi giorni, 25 avvisi di garanzia hanno raggiunto personale in servizio nel carcere di Ivrea tra il 2015 e il 2016, per violenze sui detenuti, che sono configurate però come lesioni e non come tortura poiché, pur essendolo chiaramente, il reato non era ancora stato introdotto.

Si tratta di processi che non ricevono, a differenza di altri, nessuna risonanza mediatica e di cui veniamo a conoscenza spesso solo grazie ai resoconti dettagliati dell’Associazione Antigone, che in molti casi vi si costituisce parte civile. Processi che con il passare degli anni sembrano dimostrarci che quelle immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere che ci hanno fatto tanto inorridire e sgranare gli occhi non sono episodi isolati, bensì frutto di un ordinario modus operandi, di una violenza strutturale che si nutre di se stessa. Di un sistema di potere in cui il più forte schiaccia il più debole, fino a sentirlo supplicare.

Nelle ultime settimane anche un altro episodio ci ha offerto la possibilità di riflettere su un’ulteriore stortura del mondo penitenziario: nel carcere di Milano San Vittore è stata detenuta, per fortuna grazie all’intervento dell’Associazione Antigone per sole poche settimane, una donna di 85 anni, non autosufficiente e incapace di provvedere a se stessa, per scontare una pena di soli otto mesi. I problemi qui sono principalmente due: innanzitutto l’insensatezza di tenere in carcere una persona così anziana, che deve essere assistita quotidianamente da altre detenute, con tutte le complicanze che comporta. Al 30 giugno 2022, le persone ultrasettantenni detenute rappresentavano il 2% della popolazione ristretta, spesso per scontare una pena di breve durata. E qui si presenta il secondo problema: lo scarsissimo ricorso a misure alternative alla detenzione, da un lato per la precisa mancanza di volontà politica in tal senso, dall’altro per il legame tra queste ultime e la residenza, cui sono ancorati i servizi territoriali sociali e di presa in carico del soggetto. Molte delle persone che non riescono ad accedere a misure alternative alla detenzione, infatti, appartengono a una fascia della popolazione marginale, che viene penalizzata dalla sua condizione sociale.

Questi sono fatti accaduti solo in poche settimane, eppure basterebbero per ridestare un’attenzione pubblica sul tema, oramai sopita da anni. Le cause di una simile indifferenza sono forse da ricercare nella stessa concezione del carcere e della pena, che nell’immaginario comune non si avvicina neppure minimamente a quel proposito rieducativo contenuto nella Costituzione e che anzi ha assunto un aspetto sempre più punitivo e disumanizzante, una vera discarica sociale in cui ammucchiare tutto ciò che non ci aggrada.

Ma ciò che sembra non riguardarci affatto è molto vicino a noi, non solo perché dovrebbe interessarci la sorte di tutti coloro che sono latamente intesi come parte della nostra comunità, ma anche perché perseguire il proposito costituzionale di costruire una nuova socializzazione per chi sta scontando la sua pena è compito di tutti noi. Sicuramente la strada da fare è ancora lunga, e non sappiamo se le partenze promettano bene.

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