Immaginate una sensuale bocca dalle labbra rosse e i denti bianchissimi che, emergendo su uno sfondo nero, canta: «Science fiction, double feature, Doctor X will build a creature…». Non vi viene in mente nulla? Niente paura, questo è il momento per ricordare o conoscere quella bocca, quel musical che sconvolse il mondo e rivoluzionò la storia del cinema e della cultura di massa: The Rocky Horror Picture Show. Andiamo per gradi.
È l’estate del 1975, Diana Spencer diventa Lady Diana, la Fiat sospende la produzione della storica 500 e viene pubblicato Wish you were here, il nono album dei Pink Floyd. Ma non solo. Un giovane Tim Curry, prima di vestire i panni dell’iconico pagliaccio assassino protagonista della miniserie IT, indossa autoreggenti e tacchi a spillo per diventare il Dr. Frank-N-Furter, proveniente dal pianeta Transexual della galassia Transylvania. Don’t dream it, be it! è il suo motto (non sognatelo, siatelo!).
Esce al cinema The Rocky Horror Picture Show, film musicale di Jim Sharman tratto dall’omonimo (senza Picture) musical del 1973, di Richard O’Brien. Quest’ultimo fu sceneggiatore, autore delle musiche e attore (interpreta Riff-Raff). Un film sperimentale e anticonformista, folle, icona della cultura glam e della trasgressione di quegli anni, destinato a diventare, nel tempo, manifesto di emancipazione e libertà soprattutto sessuale. Non un horror, non una parodia, non una commedia. The Rocky Horror Picture Show è qualcosa di difficile da descrivere, qualcosa di apparentemente trash, invece stracolmo di riflessioni e messaggi potenti. Raccontare anche solo la trama è cosa complessa.
L’ingenua coppietta di promessi sposi, Brad e Janet, si perde nel bosco di notte durante un viaggio e nel bel mezzo di un temporale. Come se non bastasse, si rompe anche l’auto. In cerca di aiuto, i giovani si ritrovano nei pressi di un castello e ad accoglierli vi sono due ambigui soggetti, il factotum Riff-Raff e la domestica Magenta (Patricia Quinn), i quali li conducono nel salone principale dove è in corso una strana festa. È qui che fa la sua comparsa il proprietario del castello: lo scienziato Frank-N-Furter. È qui che avverrà la completa iniziazione sessuale dei due fidanzati da parte di Frank mentre lui, nel frattempo, è deciso a creare in laboratorio l’uomo dei sogni, che chiamerà Rocky.
Curioso come un film che oggi si trova conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, al tempo della sua uscita fu un fiasco totale. Forse lo shock, forse il budget ridotto, forse la volontà di omaggiare in termini parodistici la grande maggioranza di b-movie dell’orrore e di fantascienza in voga all’epoca.
Fatto sta che il Rocky Horror comincia a essere il film degli ambienti underground, degli anticonformisti, dei ribelli. Viene proiettato più e più volte nei cosiddetti midnight cinema, luoghi in cui ci si recava per guardare prodotti fuori portata, b-movie o troppo estremi per essere mostrati in prima serata. Di colpo tutti ne parlano, tornano in sala vestiti come i propri personaggi preferiti, cantano e ballano assieme a loro. Si diffonde un’interazione tra pubblico e pellicola che di rado troviamo nel cinema, merito anche delle performance estremamente teatrali degli attori, quasi consapevoli di avere un pubblico a osservarli. Da flop diventa presto un cult inimmaginabile, ottenendo il primato del film con la maggiore permanenza in sala di tutti i tempi, ancora oggi permeato dalla stessa potenza di allora e proiettato nei cinema in alcuni precisi periodi dell’anno come una sorta di tributo.
Il film è uno dei cult di nicchia più provocatori di sempre, che ha debuttato in una società di rivoluzione, di cambiamento ma anche per certi versi ancora conservatrice, diventando un vero e proprio inno. Associato a una regia nuova e audace, ha fatto la storia del cinema, in particolare nella rappresentazione della sessualità e del genere, del travestitismo e della transessualità. Senza dubbio, il personaggio più adorato dagli estimatori ma anche più scandaloso per l’epoca è Frank. Un protagonista che non si era mai visto prima, uno scienziato pazzo, alieno, travestito e bisessuale.
Importante fare una distinzione tra travestitismo e transessualità: il primo riguarda il mero piacere di vestirsi con abiti del sesso opposto e non concerne l’identità; la seconda riguarda il bisogno di cambiare genere poiché ci si sente in un corpo non corrispondente alla propria identità sessuale. Chiaro riferimento al Dr. Frankenstein, Frank si mostra fin da subito audace ed estremamente magnetico.
La sua potenza sta forse proprio nel riuscire a giocare con lo spettatore e con gli stereotipi di genere, unendo in sé tante caratteristiche differenti e risultando, agli occhi del pubblico, assolutamente ambiguo, non etichettabile. Si mostra in intimo femminile e collana di perle ma poi sfoggia tatuaggi da biker e chiodo. Ha atteggiamenti da diva ma allo stesso tempo da macho. E ciò che sconvolge di più è quanto sia incredibilmente palese e carismatico il suo potere. Qualcosa di unico, se si pensa alla maggioranza di rappresentazioni simili nella storia del cinema queer, dove un uomo associato a caratteristiche femminili era visto come sbagliato, perverso, svilito, macchiettistico – sempre per la storia che femminile era (è?) meno rispetto a maschile. Qui si ribalta tutto. Frank è sensuale, forte, attivo, deciso, spavaldo. Canta Sweet Transvestite, presentandosi come un dolce travestito quando dolce non lo è affatto. Ha creato l’uomo perfetto per soddisfare i suoi istinti sessuali, Rocky (Peter Hinwood), un adone biondo, muscoloso e inevitabilmente muto, di rimando alle trame cinematografiche horror/comedy in cui c’è sempre la donna oggetto a essere creata in laboratorio.
Al fianco di Tim Curry, una giovanissima quanto già straordinaria Susan Sarandon nei panni candidi (ancora per poco) di Janet. Quest’ultima si ritrova, assieme al fidanzato (Barry Bostwick), a fare i conti con tabù e istinti repressi. Chiaro che entrambi rappresentino il classico stereotipo dei bravi ragazzi borghesi americani, bianchi, eterosessuali e vergini. La canzone iniziale, Dammit, Janet!, sembra una romantica proposta di matrimonio ma in realtà ci suggerisce quanto la loro vita sia impigliata nelle convenzioni sociali. Stanno insieme, dunque non resta che sposarsi e procreare. Parlano di progettare la loro vita, Brad si complimenta con lei per aver afferrato il bouquet e Janet non perde tempo nel notare come il suo anello sia più grande di quello dell’amica. Mentre cantano, lo sfondo della chiesa, allestita del precedente matrimonio, cambia in vista di un funerale. La conoscenza di Frank e del suo mondo stravolgerà del tutto la loro percezione e, come prima cosa, verranno privati degli abiti, simbolo sociale per eccellenza della distinzione di genere.
Il film gioca con il genere non solo sociale ma anche cinematografico. Richiama Frankenstein ma la creatura non è mostruosa, bensì un uomo bellissimo. È un musical. Sebbene in molti strabuzzino gli occhi a sentirne parlare, questo è uno dei pochi a essere amato alla follia anche dai peggiori detrattori del genere. Musiche e canzoni rock entrate ormai nell’Olimpo delle colonne sonore. Ad esempio The Time Wrap, coinvolgente grido di euforia, in poche parole, l’esperienza sessuale. Oppure Touch-a, Touch-a, Touch-a Touch Me, emblematica performance di Janet nel momento in cui si accorge di cosa significhi il piacere, inno al desiderio sessuale femminile attivo. Persino Glee, nota serie televisiva celebre per le sue cover musicali, ha dedicato alla pellicola un intero episodio, intitolato The Rocky Horror Glee Show.
Proprio rifacendosi alla sua vena parodistica e pop, il film è stracolmo di richiami alla cultura di massa. A cominciare dalla presenza diretta nel cast del cantante Meat Loaf, il quale impersona il vecchio rock, un’epoca andata. Numerose sono le pellicole citate, da Titanic a Il Mago di Oz a, ovviamente, Frankenstein Junior, come tanti anche i riferimenti a celebri opere d’arte (la Creazione di Adamo e il David di Michelangelo, American Gothic di Grant Wood, la Gioconda di Leonardo). Importante citare la presenza di un triangolo rosso sul camice di Frank. In epoca nazista, il triangolo rosa rovesciato era simbolo degli omosessuali deportati, per distinguerli e umiliarli. Furono poi le parate degli anni Settanta per i diritti omosessuali a usare il triangolo con la punta però rivolta verso l’alto, ribaltandone il significato verso una forma di protesta alle discriminazioni. Frank fa proprio questo e la sua potenza è tale da ispirare vari altri personaggi di opere successive, ad esempio quello di Emporio Ivankov del manga/anime One Piece.
È questo il nostro omaggio a The Rocky Horror Picture Show. Un film che è stato come uno schiaffo in faccia al bigottismo dei puritani, capace di parlare di sesso al mondo intero con simpatia e semplicità. Di sesso libero, vero. Di sesso inteso come scoperta e divertimento, piacere e assenza di tabù. Un percorso verso la celebrazione dell’espressione di sé, verso l’abbattimento di tutte le standardizzazioni e le rigidità sociali. Un grido di avanguardia che ci comunica come rappresentazioni del genere, all’epoca incredibili, siano invece tanto attuali e necessarie ancora oggi. Don’t dream it, be it.