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“The Last of Us 2”: quando l’inclusività fa più paura dell’apocalissi

Marina Finaldi di Marina Finaldi
27 Maggio 2020
in Rubriche
Tempo di lettura: 6 minuti
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Il patriarcato… il patriarcato non cambia mai. Potremmo riassumere così il dibattito sempre aperto sulla rappresentazione di genere all’interno dei videogame: distorcendo una delle citazioni più note della subcultura videoludica. Puntuale come un orologio, infatti, la polemica sulla legittimità della presenza di personaggi non maschi ed esplicitamente non etero nei titoli più amati dall’industry si è abbattuta sulle prolifere community di settore online, inondando i social network e tutte le possibili piazze di dialogo digitale dell’ennesimo tsunami di odio tossico. A fornire il pretesto, questa volta, è l’uscita di The Last of Us 2, prosieguo dell’omonimo The Last of Us, acclamato all’unanimità da critica e pubblico come uno dei migliori videogiochi di tutti i tempi.

A poche settimane dall’uscita, alcuni contenuti della storyline (la trama) sono trapelati contro la volontà di Naughty Dog, l’azienda che ha sviluppato il videogioco, scatenando un parapiglia su internet. Facciamo un passo indietro per i profani: The Last of Us è un videogioco per PlayStation che attiene ai generi del survival-horror e dell’avventura. È ambientato negli Stati Uniti, dopo una pandemia infettiva causata dalle spore di un fungo. Gli infetti si tramutano in esseri mostruosi e aggressivi. Il 60% della popolazione mondiale soccombe, i sistemi economico-produttivi collassano, i sopravvissuti si dividono in bande che si fanno la guerra per il cibo, i materiali e il territorio. Dappertutto, vige la legge marziale. Il protagonista, Joel, intraprende un’avventura per scortare la 14enne Ellie fuori dalla zona di quarantena. Ellie, infatti, è immune all’infezione e la leader delle Luci – una delle bande più grandi – vuole capire se, portandola in ospedale per esaminarla, sia possibile sviluppare un antidoto. Durante il viaggio e le avversità affrontate insieme, però, Ellie e Joel trovano un altro tipo di antidoto: riscoprono l’una nell’altro una ragione per andare avanti, un amore  che li fa sentire vivi e non semplicemente sopravvissuti. Ellie è per Joel la figlia che ha perso, Joel è per Ellie la famiglia che non ha mai avuto.

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Come spesso accade nei videogiochi, anche The Last of Us attinge alla fonte della letteratura: in molti passaggi, rievoca il capolavoro postapocalittico di Cormac McCarthy, La Strada, o un altro caposaldo del genere, Il giorno dei trifidi di John Wyndham. Da McCarthy, il videogame trae le dinamiche tra i due protagonisti e le realtà tribali sopravvissute all’apocalisse. La costruzione delle ambientazioni, invece, ricorda molto da vicino i trifidi di Wyndham, una specie vegetale artificiale e antropofaga che prende il sopravvento sulla Terra e decima la popolazione. The Last of Us fu seguito da campagna di gioco aggiuntiva, The Last of Us – Left Behind, che approfondiva in due brevi episodi il carattere di Ellie, dichiarando esplicitamente – non senza titubanze, da parte del team creativo – l’omosessualità della protagonista. Questa rapida panoramica ci riporta al dibattito odierno sul tema.

Il team creativo di The Last of Us 2, capeggiato dallo scrittore Neil Druckmann, non ha mai fatto mistero di voler affrontare le questioni di genere nel videogioco. Questa sensibilità al tema della rappresentazione di genere e a quello della visibilità LGBTQ+ è sempre più presente, forse soprattutto grazie al fatto che le statistiche di mercato mostrano quanto l’interesse per i videogame non sia esclusivo appannaggio dei consumatori maschi ed etero. Se dunque, fino a qualche tempo fa, i videogame pullulavano di esempi di machismo e damsel in distress, donzelle in difficoltà, oggi le cose cominciano a evolvere, com’è giusto e normale che sia per un medium in espansione – si ipotizza che entro il 2025, l’industry varrà circa 300 miliardi di dollari. La pervasività sempre maggiore che la cultura pop ha nelle nostre vite ha poi contribuito al consolidamento di una voce critica che si interroga con grande autorevolezza sul ruolo delle arti e dell’intrattenimento nel legittimare o mettere in discussione una visione del mondo semplicistica e fondamentalmente sessista. Contro questa critica e questa presa di coscienza dell’industria si schierano gli aficionados dei videogiochi com’erano una volta, quando le donne facevano le donne e i gay avevano il buongusto di non sventolare la loro devianza in faccia a nessuno.

Così, quando un paio di settimane fa Naughty Dog ha subito una fuga di notizie, tra cui alcuni pesanti spoiler sul futuro di Joel ed Ellie e di un personaggio che verrà introdotto in questo capitolo, Abby, orde di gamer infuriati hanno minacciato di cancellare il pre-order del gioco, esortando gli altri membri della community a unirsi alla protesta. Il video in cui Neil Druckmann annuncia l’uscita del videogame per il 19 giugno è stato bersagliato di pollici in giù e di commenti biliosi, al punto da spingere Naughty Dog alla disattivazione di questi ultimi. Una piccola ma rumorosa minoranza di gamer sul web grida al pericolo: se The Last of Us 2 dovesse uscire e riscuotere il successo di vendite atteso, questo danneggerebbe irreparabilmente il mondo dei videogame. Cosa c’è dietro le proteste? Parrebbe che il personaggio di Abby sia transessuale. Come se non bastasse, è un personaggio giocabile, il che implicherebbe l’identificazione del giocatore in un individuo dalla sessualità non specificata o non-binaria per un tratto di strada.

Qui, il discorso si fa più sfumato perché tra i gamer che criticano le scelte di Naughty Dog – guarda caso, tutti maschi eterosessuali – sono pochissimi quelli che ammettono apertamente di avere un problema con il genere non binario di uno dei protagonisti. I più fanno risalire il proprio astio a una banalissima delusione per la trama. Qualcun altro adduce come spiegazione il fatto che la presenza di donne e persone LGTBQ+ all’interno dei videogiochi sarebbe una trovata di marketing per rincorrere un politicamente ipercorretto che sta rovinando la società. In tal senso, i gamer maschi ed etero si sentono sottrarre una sorta di esclusività, l’accesso a un tempio privato e ideale della mascolinità ipertrofica. Un equivalente adulto della casetta sull’albero con il cartello di VIETATO ALLE FEMMINE.

I social media come Reddit e Facebook contano quintalate di meme e commenti transofobici vomitati dalla oramai ex fanbase di The Last of Us. Tutti i contenuti di odio nei confronti di Abby hanno a che fare con la sua fisicità, con il fatto che non abbia forme inequivocabilmente femminili, con il fatto che sia forte come un uomo ma si identifichi come donna. Pensateci un attimo: una manciata di uomini grandi e grossi – che presumibilmente gioca The Last of Us per provare l’ebbrezza di sopravvivere in un mondo colpito dall’apocalisse e godersi una storia ben scritta su quel che resta delle civiltà umane – perde del tutto la testa perché un personaggio che si identifica come donna non è stato progettato con il solo scopo di essere bello da guardare o di essere salvato. L’odio nei confronti di Abby e di The Last of Us 2 si inscrive in un dibattito più ampio che, come dicevamo all’inizio, va avanti già da qualche anno ed è caratterizzato da una generica confusione intorno all’utilizzo del termine trovata di marketing e dall’abuso, spesso a sproposito, di frasi come dittatura del politicamente corretto.

Tanto per cominciare, bisognerebbe contestare a chi parla di dittatura del gender – e nel farlo inneggia al diritto di esprimere il proprio pensiero sessista e omofobo – che non esiste libertà più grande del mostrare nelle arti e nell’intrattenimento la varietà delle esperienze umane, che l’unica forma di censura alla propria libertà personale è l’odio nel quale macerano ogni giorno. Infine, bisognerebbe far notare a chi protesta contro le trovate di marketing inclusivo che, nel settore dei videogame, le prime vittime del marketing sono state proprio gli uomini eterosessuali. I videogame non hanno una connotazione di genere di per sé. Vengono collocati, come qualsiasi prodotto, all’interno di un mercato e quel mercato, negli anni Ottanta, fu individuato soprattutto nei giovani uomini. Tutte le campagne promozionali dei giochi, le avventure per salvare la principessa dal bruto, le quest rabbiose a caccia di vendetta, hanno perpetrato un ideale ben preciso di uomo. Una delle pubblicità del 1998 per il lancio di Legend of Zelda citava: Will thou get the girl? Or play like one? (Salverai la ragazza? O giocherai come una femminuccia?).

L’implicazione è chiara: la legittimazione del maschio passa, anche nei videogiochi, attraverso il corpo femminile che ne deve essere lo strumento. L’eroe è veramente eroe ed è veramente maschio se salva il proprio oggetto di desiderio sessuale dalle grinfie del suo virile doppio mostruoso. Se, però, la donna si salva da sola, se il protagonista di un videogioco può essere non binario, se, insomma, i videogiochi smettono di raccontare sempre e solo l’esperienza del maschio etero come accade in The Last of Us 2, cosa ne sarà della  cara, vecchia virilità?

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