Immaginate un uomo, anzi un ragazzo appena ventenne, che si trova in una stanza vuota, senza letto né acqua. Immaginate che beva dal water, che si attacchi al termosifone perché non ha coperte e si provochi delle ustioni. Immaginatelo nudo, disperato, preso dall’angoscia. E rivalutate se, per il modo in cui è trattato, possa definirsi ancora un uomo.
Mi piacerebbe potervi dire che non si tratti di scene vere, ma questa è la storia di M., e con lui di centinaia di detenuti che affrontano con disperazione il carcere, il cui disagio psichico viene acuito dalla detenzione.
M. è un ragazzo lombardo recluso nel penitenziario di Torino, precisamente nel reparto Sestante, ossia la sezione di osservazione psichiatrica. Prima, ha scontato la sua pena in una casa di cura in cui gli è stato possibile sottoporsi in maniera continuativa alla psicoterapia e avere a disposizione i tranquillanti adatti. Dopo esservisi allontanato, però, è stato condotto in prigione e qui, al suo tentativo di suicidio, l’istituzione carceraria ha risposto in maniera punitiva, rinchiudendolo in una cella liscia.
Le celle lisce sono chiamate così perché sono spoglie di qualsiasi arredo, compreso il letto, e per evitare che il detenuto si faccia del male è denudato, privato di qualsiasi oggetto, compresi materasso e coperte. Esse sono formalmente vietate dall’ordinamento penitenziario, ma sono purtroppo una prassi oramai consolidata in molti istituti penitenziari, tra cui la settima sezione del Sestante, ossia quella adibita all’osservazione di pazienti psichiatrici in acuzie che non sono considerati idonei a intraprendere alcun percorso terapeutico. Le condizioni di tale sezione sono già state denunciate diversi anni fa dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma. Eppure, da allora, niente sembra essere cambiato.
Le articolazioni per la salute mentale sono delle sezioni speciali finalizzate a garantire un’assistenza rafforzata a detenuti che abbiano sviluppato patologie psichiatriche durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente. È prevista una permanenza massima di trenta giorni, ma sono numerosissime le ipotesi in cui essa si protrae molto più a lungo, come è accaduto a M., che vi è rimasto per nove mesi. Spesso l’approccio è di tipo meramente contenitivo, con la somministrazione di terapie farmacologiche anche oltre misura, dando priorità alle esigenze di ordine e sicurezza dell’istituto anziché a quelle riabilitative e risocializzanti. Così, a richieste d’aiuto e a fragilità si risponde con la punizione, la segregazione e l’annichilimento.
Se l’istituzione carceraria ha dimostrato e dimostra tuttora di avere grosse difficoltà a perseguire la finalità rieducativa della pena – il tasso di recidiva che sfiora l’80% ce lo dimostra – esse diventano ancora maggiori quando si hanno di fronte soggetti fragili e vulnerabili. L’Osservatorio dell’Associazione Antigone ha stimato che, nei novantotto istituti penitenziari visitati lo scorso anno, una media del 27.6% dei detenuti è in terapia psichiatrica e il 41% delle patologie è di natura psichica.
Il carcere non solo non è in grado di occuparsi di soggetti che soffrono di patologie psichiche, ma soprattutto è esso stesso luogo patogeno poiché favorisce lo svilupparsi di disturbi di natura mentale, sia nel momento traumatico dell’ingresso, sia durante la permanenza in prigione e finanche nel momento prossimo all’uscita, durante il quale il recluso che non sia stato destinatario di un reale processo riabilitativo e risocializzante avverte le ansie e le paure legate al mondo esterno. Donald Clemmer parla di sindrome di prigionizzazione, per la quale il soggetto detenuto assimila norme che governano ogni aspetto della vita dello stesso – che dipende totalmente dall’istituzione carceraria che contribuisce così alla sua infantilizzazione e all’eliminazione di qualsiasi traccia di autonomia – determinando un annichilimento della personalità e dei valori che aveva prima dell’ingresso in carcere.
Il malessere negli istituti penitenziari è dimostrato dai numeri dei suicidi e degli atti di autolesionismo registrati. Secondo i dati forniti dal Dap, lo scorso anno sessantuno persone si sono tolte la vita mentre erano detenute, centinaia hanno tentato di farlo e migliaia hanno manifestato la loro sofferenza con atti di autolesionismo, scioperi della fame, rifiuto di cure. Il fenomeno suicidario, in carcere, registra quindi un tasso molto più alto che all’esterno, di undici persone ogni 10mila, e questo non può essere altro che un segnale d’allarme.
La mancanza di figure professionali adeguate, di attività rieducative – quasi del tutto scomparse durante l’emergenza sanitaria in corso –, il distacco dagli affetti e da qualsiasi legame esterno, acuiscono il disagio psichico e le terapie farmacologiche non possono più essere la sola soluzione. Il tema si intreccia con quello delle REMS, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che se da un lato non manifestano problemi di sovraffollamento poiché la maggior parte delle persone idonee rimangono in attesa in carcere, dall’altro pongono un grosso problema di detenzioni sine die. Anch’esse, infatti, sono da considerare, così come la detenzione vera e propria, un’extrema ratio, utilizzabile solo laddove non sia possibile realizzare un percorso virtuoso di cura sul territorio.
Il solo miglioramento delle condizioni detentive, dunque, può essere la soluzione e, con esso, la previsione di misure alternative che pongano il soggetto in collegamento con la realtà territoriale in cui andrà a inserirsi nel periodo successivo all’esecuzione della pena.
Conosciamo la storia di M. grazie a familiari e realtà coraggiose che se ne sono fatte carico. Ma ci sono migliaia di volti che non conosciamo, di storie che non abbiamo udito, di lacrime versate nelle prigioni, angoli dimenticati della Terra cui dovremmo guardare con maggiore cura perché a nessun uomo possa sorgere il dubbio di non essere più tale.