Negli ultimi anni, numerosi studi si sono occupati del trattamento delle malattie mentali negli istituti di pena, focalizzando la propria attenzione sul carcere come luogo patogeno. Con questo non si vuole dire che disturbi e psicosi di vario genere si sviluppino in cella e che essa ne sia l’unica causa, ma certo è che la salute mentale nei luoghi di detenzione è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Le statistiche condotte dimostrano infatti che la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno e ciò per l’incidenza di vari fattori, primi fra tutti la limitazione dei propri spazi personali – che si accentua con il dilagare del sovraffollamento –, l’esiguità delle ore che si trascorrono fuori dalla cella, l’abbandono dei propri affetti e, ancora, la difficoltà delle relazioni interpersonali che si instaurano all’interno del penitenziario, nel quale si è costretti a una convivenza forzata con persone anche molto diverse.
Le patologie psichiatriche spesso sono direttamente collegate alla marginalità sociale vissuta e dunque il carcere non fa altro che palesare la propria situazione di malessere pregressa. La medicina penitenziaria ha spesso coniato dei nuovi concetti per descrivere i disturbi direttamente legati alla reclusione, che ovviamente si diversificano a seconda della fase di detenzione del soggetto. Si parla infatti di sindrome da ingresso in carcere per indicare la situazione di chi si trova a vivere un impatto drammatico nel momento in cui entra in prigione, molto spesso perché proveniente da realtà sociali e culturali molto differenti. Sono frequenti disturbi d’ansia generalizzata, claustrofobia, senso di irrealtà, patologie psicosomatiche come la perdita di peso, i disturbi visivi e la tachicardia. Ancora, la rabbia nei confronti di un’istituzione da cui si finisce per diventare completamente dipendenti se non si persegue un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade negli istituti di pena, può essere percepita come stato depressivo che si manifesta attraverso atti di autolesionismo e tentativi di suicidi. I dati registrano 65 suicidi avvenuti nel 2018, senza contare quelli sventati. Numeri allarmanti che segnalano una continua sofferenza delle persone detenute e lesione del diritto alla salute mentale che è costituzionalmente garantito nel nostro ordinamento.
La stessa uscita dal carcere, se è tanto desiderata nel corso della pena, finisce per essere traumatica se l’istituzione carceraria, come spesso avviene, non ha saputo assolvere al suo compito di reinserimento sociale. I dubbi sul proprio futuro, sulle proprie possibilità e sulla propria condizione di ex detenuto marchiato a vita da questo titolo conducono a quella che la medicina penitenziaria definisce vertigine da uscita: anche in questo si manifesta la dipendenza sviluppata nei confronti dell’istituzione. Il soggetto, una volta uscito, è totalmente estraniato e non si sente più parte di nulla.
Noi sappiamo che la legge 81/2014 prescrive la chiusura e il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, che avevano sostituito i cosiddetti manicomi criminali. Allo stesso tempo, prevede l’apertura delle REMS, ossia le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, organismi sanitari finalizzati alla cura e non alla detenzione. Ma prima di cercare di capire il loro ruolo nel nostro ordinamento, domandiamoci come gli istituti di pena si occupano della salute mentale, individuando per quanto possibile i limiti che la condizione detentiva presenta di fronte a patologie che necessiterebbero di cure e attenzioni costanti.
L’Osservatorio di Antigone, l’associazione che da anni si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale, nelle sue visite ai penitenziari italiani, ci fornisce dati preoccupanti: ben il 35% dei detenuti assume psicofarmaci, ma solo nel 25% degli istituti è presente un’articolazione di salute mentale o un reparto per reclusi con infermità mentale. Ciò che più allarma, però, sono i dati riguardanti la presenza di professionisti come psichiatri e psicologi: in media gli psichiatri sono presenti settimanalmente ogni 100 detenuti solo 8,9 ore, mentre gli psicologi 13.5 ore. Ciò significa che a ogni detenuto saranno dedicati rispettivamente 5 e 8 minuti, numeri irrisori per far fronte all’entità del fenomeno. Addirittura la media settimanale nel carcere di Ancona Montacuto è di 0.3 ore settimanali, un tempo che non è sicuramente sufficiente per comprendere lo stato di 100 pazienti e prescrivere psicofarmaci, che però sono ampiamente utilizzati.
Il nostro legislatore non ha dato seguito alla legge delega che chiedeva di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena e non si accenna minimamente all’argomento nei tre decreti di riforma dell’ordinamento penitenziario, nonostante sia la Corte Costituzionale sia il Comitato Nazionale di Bioetica abbiano affermato nel corso dell’ultimo anno la necessità di tale intervento. Spesso sentiamo espressioni come manicomializzazione delle prigioni o il carcere come nuovo manicomio. Ma è effettivamente così, cosa sta accadendo? Dagli anni 2000, partendo dal penitenziario di Torino, si è sperimentata l’apertura all’interno degli istituti di pena dei cosiddetti repartini, ossia sezioni specializzate in cui ci si dovrebbe occupare della salute mentale meglio che nelle altre sezioni, utilizzati quando il disagio psichico raggiunge livelli che mettono a rischio la propria vita e quella degli altri. È un’istituzione che non è mai stata normata univocamente: l’unico accordo trovato riguarda la loro denominazione di Articolazioni per la tutela della salute mentale. In Italia attualmente ce ne sono 35 che ospitano circa 250 persone, il cui ingresso e la cui uscita sono stabiliti per decisione interna dell’amministrazione penitenziaria e dell’amministrazione sanitaria territorialmente competente, senza alcun controllo giurisdizionale. Il ricovero in tali sezioni non dovrebbe durare più di 30 giorni, essendo finalizzato alla formulazione di una diagnosi e di un protocollo terapeutico-farmacologico personalizzato per il paziente da seguire poi in una sezione ordinaria dell’istituto, ma in realtà sono state registrate spesso permanenze molto lunghe che configurano trattamenti inumani e degradanti. I diritti della persona sono continuamente calpestati, in ambienti che di tutela della salute mentale hanno davvero poco.
Tralasciando per un attimo la gestione dei singoli istituti di pena, veniamo poi alle REMS, istituite a partire dal 2015 e descritte come extrema ratio, cui rivolgersi quando non sia possibile un percorso virtuoso di cura sul territorio. L’osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS, istituito dal Comitato StopOpg ci informa che attualmente in Italia ci sono 30 REMS, di cui 5 private e convenzionate con le aziende sanitarie che sostengono, grazie a un apposito fondo ministeriale, i costi del ricovero dei pazienti. Il legislatore ha previsto un numero massimo di 20 persone ricoverate per struttura, limite spesso aggirato attraverso la creazione di un sistema polimodulare di REMS proprio all’interno della medesima struttura, raggiungendo così presenze tali da ricordare gli OPG. Non si registrano casi di sovraffollamento esclusivamente perché ben 603 persone sono in attesa – 86 in Campania –, mentre solo per 629 è già stato disposto il ricovero. Per il 39.5% di queste, inoltre, si tratta di misure di sicurezza provvisorie, ossia disposte dal gip prima di avere una risposta dai periti riguardo alla loro infermità di mente sulla base di meri indici di colpevolezza o della vecchia categoria della pericolosità sociale.
Dunque, i rischi sono vari. Innanzitutto, che le persone in attesa di ricovero vengano lasciate in carcere in condizioni detentive incompatibili con il loro stato di salute. In secondo luogo, che nei REMS si subisca una detenzione preventiva senza garanzie di tempi e procedure, l’equivalente del cosiddetto ergastolo bianco vissuto all’interno degli OPG.
Va escluso che la soluzione possa trovarsi nell’apertura di nuove REMS e nella predisposizione di nuovi ricoveri: tali strutture – lo ribadiamo – sono apertamente considerate quale ultima soluzione, dunque una loro proliferazione si configurerebbe come un abuso oltre che come una chiara violazione di legge. Allora bisognerà puntare al percorso virtuoso cui il legislatore fa riferimento: un miglioramento delle condizioni detentive permette una più stabile salute mentale così come una maggiore organizzazione delle strutture permette di rendere compatibile l’istituto di pena con particolari condizioni psicologiche. Ma ciò può essere ottenuto esclusivamente attraverso una collaborazione tra le varie realtà territoriali e statale, oltre che tra l’amministrazione penitenziaria e quella sanitaria.