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Rifugiati climatici: quelle colpe che rinneghiamo

Chiara Barbati di Chiara Barbati
5 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Sembra proprio che più si lancino allarmi, meno il cambiamento climatico spaventi le persone. Costantemente ignorato dai governi e raramente combattuto dai cittadini, quel pericoloso stravolgimento ambientale di cui si parla da tempo crea più danni di quelli che temiamo e ha implicazioni in numerose questioni attuali delle quali non conosciamo realmente l’origine. Tra queste, l’immigrazione, un fenomeno certamente non recente che da decenni preoccupa il mondo industrializzato, ma che da alcuni anni è silenziosamente alimentato dal riscaldamento globale di cui tanto poco ci curiamo e che genera una nuova – e non riconosciuta – categoria di migranti: i rifugiati climatici.

Che nelle migrazioni di cui tanto ci lamentiamo ci fosse anche lo zampino dell’uomo occidentale è sempre stato chiaro poiché, tra sfruttamento e colonizzazione, noi stessi abbiamo sempre contribuito a creare quelle condizioni di vita insostenibili che conducono interi popoli a emigrare. E mentre gli immigrati sono visti in Italia e in Europa come un male inestirpabile, un peso da dividere tra uno Stato e l’altro, e i difensori dei diritti dei rifugiati non sono mai abbastanza, nessuno ha ancora avuto l’ardire di affermare che quelle migrazioni le alimentiamo anche noi – allora chi è causa del suo male pianga se stesso. E, nonostante le concause riconosciute che spingono numerosi individui a lasciare la terra natia, il clima non ha ancora conquistato la visibilità che gli spetterebbe.

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Ci siamo chiesti tante volte come si possano ignorare i disastri ambientali incalzanti e ci siamo spesso risposti che il denaro ha un appeal con cui la sopravvivenza a lungo termine non può competere. Ma questa consapevolezza deriva dalla fasulla certezza secondo cui gli effetti disastrosi delle nostre irresponsabili attività non ci colpiscano in prima persona, convinzione radicata semplicemente perché non lo fanno in modo abbastanza diretto da rendercene conto. Chi vive in Paesi ricchi difficilmente soffre la fame quando l’agricoltura è in difficoltà, è impossibile che patisca la sete in periodi di siccità. Forse, può rischiare solo in funzione degli eventi climatici estremi, quei pericolosi fenomeni meteorologici come trombe d’aria, ondate di caldo e piogge abbondanti che aumentano man mano che la temperatura globale incrementa. Ma non serve scomodare i seppur incombenti disastri ambientali per comprendere quanto l’emergenza climatica stia già avendo incredibili ripercussioni sulla vita di tutti i giorni di milioni di persone.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, saranno tra i 25 milioni e un miliardo le persone costrette ad abbandonare le proprie case entro il 2050 a causa delle insostenibili condizioni climatiche. Eppure, sebbene siano migliaia già oggi gli individui che fuggono per gli stessi motivi, la definizione di rifugiati climatici non è stata ancora riconosciuta dalle autorità che dovrebbero occuparsi di accoglierli, motivo per cui questa categoria, che comprende il 10% dei migranti che arrivano in Italia, non è tutelata dal diritto internazionale. Il problema risiede molto probabilmente nel fatto che non è l’Europa la prima a rischiare il collasso in seguito alle conseguenze delle sue capitalistiche azioni. Infatti, nonostante i Paesi industrializzati siano quelli sulle cui spalle ricade la responsabilità maggiore del riscaldamento globale, gli effetti delle sconsiderate decisioni prese nel corso dell’ultimo secolo si scatenano, per ironia della sorte, principalmente nei Paesi poveri.

Africa subsahariana, Africa occidentale, Asia centrale, luoghi in cui le condizioni climatiche improvvisamente mutate mettono in pericolo la sopravvivenza di tante popolazioni. Il Bangladesh è tormentato dalle inondazioni che distruggono interi villaggi e nel giro di pochi anni intere zone dello Stato rischiano di sparire. La desertificazione, dovuta all’eccessivo sfruttamento delle terre e alle temperature crescenti, ha messo in ginocchio numerosi Paesi africani che basano la propria fragile economia sull’agricoltura che, ormai, non riesce a soddisfare il fabbisogno della popolazione. L’improvviso aumento delle temperature provoca sempre più ricorrenti periodi di siccità in Pakistan, che si trova a fronteggiare le conseguenze di un riscaldamento globale di cui non ha colpa, producendo meno dell’1% delle emissioni globali di CO2. Il lago Ciad, che garantisce acqua a Camerun, Niger, Nigeria e Ciad si è ridotto del 75% e rischia l’evaporazione. Le coste del Gambia rischiano di essere sommerse e il Corno d’Africa vive in costante carestia.

Nei Paesi in cui certi territori diventano pericolosi a causa degli eventi climatici, in cui le risorse e i beni di prima necessità scarseggiano, è facile che nascano conflitti, guerre intestine per aggiudicarsi la sopravvivenza che peggiorano ulteriormente la situazione. E quando in Italia e negli altri Stati fortunati si tenta di incolpare le culture, le tradizioni, l’arretratezza e l’incapacità di quella stessa gente martoriata dal nostro cambiamento climatico, in realtà non si fa altro che rinnegare le proprie colpe. Quello dei Paesi industrializzati è un nuovo colonialismo, non fatto di risorse rubate e di persone ammazzate, non fatto di conflitti e di schiavi, ma di luoghi a cui destinare gli effetti delle nostre fabbriche, della nostra aria condizionata, del nostro consumismo incontrollato, dei rifiuti gettati in mare, delle nostre fameliche trivelle. Non riconoscere a livello globale l’esistenza dei migranti climatici, di quei barconi di persone che non fuggono solo dalle guerre, ma dalle terre roventi e inospitali che noi stessi abbiamo rovinato, significa solo rinnegare delle colpe che – spesso – neanche ci rendiamo conto di avere.

E quando ci diciamo, pur di non accoglierli, di aiutarli a casa loro, in quelle case che proprio noi abbiamo distrutto, rifiutandoci di avere alcuna implicazione, alcun legame con quelle sfortunate persone che abbiamo condannato, mi chiedo come agiremmo se a essere distrutte fossero le nostre case, cosa pretenderemmo da chi le ha rese invivibili. Ma poi ricordo che ci stiamo privando del nostro stesso futuro senza alcun rimorso solo per servire l’invincibile dio denaro, e ogni discorso diventa vano.

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