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Raya e l’ultimo drago: Disney omaggia il Sud-Est asiatico in chiave fantasy

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
11 Marzo 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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In America riaprono finalmente le sale cinematografiche e uno dei film in uscita, attesissimo, è il nuovo Disney Raya e l’ultimo drago. Programmato per il 25 novembre 2020 e poi rimandato, in Italia è invece disponibile dal 5 marzo su Disney+ con Accesso VIP, al costo di 22 euro. Farà poi parte del catalogo gratuitamente dal 4 giugno. Si tratta del 59esimo Classico Disney – subito dopo Frozen II – Il segreto di Arendelle – e la direzione vanta nomi non da poco: Don Hall e Carlos López Estrada (Paul Briggs e John Ripa come co-registi), che hanno lavorato a capolavori del calibro di Big Hero 6, Oceania e Frozen. Cosa aspettarci da Raya e l’ultimo drago? Cerchiamo di capirlo insieme, rigorosamente senza spoiler.

Raya è una principessa asiatica, allenata fin da piccola da suo padre affinché diventi un’abile guerriera. Vive nel mondo di Kumandra, luogo dove un tempo esseri umani e draghi vivevano in totale armonia, ma l’arrivo di creature mostruose, i Druun, costrinse tutti i draghi a sacrificarsi per il bene comune. Cinquecento anni dopo, ecco che i Druun sono tornati e toccherà a Raya andare alla ricerca dell’ultimo drago leggendario per riunire il suo popolo e salvare l’umanità.

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Una trama forse non particolarmente innovativa, ma la vera forza di questo lungometraggio d’animazione sta senza dubbio nel cosiddetto world building, il processo di costruzione del mondo di Kumandra. Cinque regni diversi attraverso cui la nostra protagonista intraprenderà il suo viaggio, caratterizzati da un’atmosfera fantasy ispirata alle culture dell’Asia sudorientale come Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia, Birmania, Indonesia e Filippine. I colori sgargianti, le inquadrature di forte impatto e il livello di dettaglio – sebbene non sia lo stesso per tutti e cinque i regni – saranno estasi per gli occhi dello spettatore ed è per questo che una delle più grandi pecche del film è non poterlo vedere sul grande schermo.

Un’altra caratteristica – diversamente dalla maggior parte dei Classici Disney a cui siamo abituati – è l’assenza di canzoni. Una scelta audace ma che conferisce maggiore maturità all’opera, un po’ come già Zootropolis aveva saputo brillantemente fare. Le musiche di James Newton Howard, tuttavia, non ci fanno sentire la mancanza di nessun improvviso intervento canoro.

E poi c’è la protagonista, Raya. Forte, coraggiosa e non caucasica, incarna perfettamente il concetto di inclusività e girl power che moltissime major hanno abbracciato per andare al passo coi tempi. Le donne che incontriamo nei lungometraggi Disney-Pixar sono sempre più indipendenti, attive, grintose, lontane ormai dallo stereotipo delle leggiadre principesse alla ricerca del vero amore che le salvi. Ce l’avevano già mostrato con Jasmine, Mulan (per l’amor del cielo, non il recente live action), Elsa, Vaiana, principesse multietniche con scopi e atteggiamenti molto più esemplari per le bambine e i bambini. Raya è sì una guerriera ma è anche incredibilmente umana, caratterizzata da sentimenti e condotte non sempre nobili, il che la rende a volte quasi un’antieroina. È disillusa, spesso cinica, priva di fiducia nel prossimo.

Il suo è per l’appunto un viaggio di formazione in cui mettere in discussione se stessa e le sue convinzioni e comprendere il concetto di fiducia e l’importanza del lavoro di squadra. Inutile dire che in questo viaggio – che ricorda tantissimo il concept dei videogiochi – non sarà affatto sola: i personaggi secondari sono tutti fantastici, ben caratterizzati e mai fini a se stessi, a cominciare da Noi, infante guerriera accompagnata da piccole creature chiamate Ongi, Tong, gigante buono, o Tuk Tuk, fidato animale da compagnia. Infine, ma non per importanza, Sisu, singolare dragonessa che ricorda vagamente Mushu per goffaggine e simpatia, dalla sensibilità profondamente umana.

Un film all’insegna dell’avventura, omaggio a fascinose culture, tra realismo e antiche leggende. Regia dinamica e dialoghi spigliati, in cui spiccano le molteplici scene di combattimento realizzate con maestria, contro più di una minaccia, bilanciando sapientemente il ritmo tra un action e un road movie. Non si escludono momenti più solenni e drammatici, citazioni cinematografiche e molto simbolismo, adattandosi come al solito a target più ampi. Il concetto chiave è sicuramente la fiducia, associata alla naturalezza di sentimenti variegati e non sempre descritti positivamente, come rabbia, incertezza, rancore, rimpianto.

Bravi anche i doppiatori italiani, tra cui Luisa Ranieri e Paolo Calabresi, ma chapeau al doppiaggio originale di Awkwafina come Sisu. Un viaggio dell’eroe – dell’eroina in questo caso – in chiave contemporanea che saprà stupire e intrattenere e che ci auguriamo di poter ammirare anche al cinema, non appena ce ne sarà la possibilità.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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