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“Ragnatele cremisi” di Claudia Piccinno. La Poesia sospesa sul baratro

Fiorella Franchini di Fiorella Franchini
9 Novembre 2021
in Billy
Tempo di lettura: 5 minuti
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La silloge di Claudia Piccinno “Ragnatele cremisi – concentriche memorie” per le Edizioni La Lettera Scarlatta, riporta alla mente Ottavia, la città ragnatela e invisibile di Italo Calvino. Ottavia è edificata in sospensione tra due precipizi, fatta di corde, teleferiche e case a sacco, e a differenza delle altre città tende a svilupparsi verso il basso. L’ispirazione di Claudia Piccinno è sospesa tra due rupi, la realtà e l’intuizione, e in questo vuoto, funi, catene, passerelle, ovvero emozioni, sentimenti, dolori, che consentono di attraversare la vita.

A Ottavia si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Allo stesso modo, l’autrice di questi versi cammina sulle travi dell’esistenza, guardando il baratro, ma sta attenta a non cadere e si aggrappa alle maglie della poesia così che non le sfugga il senso dell’essere qui, in questo momento.  Tutto tende verso il basso perché Claudia Piccinno non vuole sottrarsi al peso e alle complicazioni, alle difficoltà, alle contraddizioni, eppure non tocca mai il fondo. Tutto è sospeso su questo abisso ma sia gli abitanti di Ottavia sia la scrittrice, e con lei il lettore, sanno che in questo vuoto c’è meno incertezza che in altri luoghi perché hanno la consapevolezza che quella rete di connessioni si regge su un equilibrio universale  che è dato dalla sua stessa fragilità, quella fragilità che è una condizione esistenziale che appartiene a tutti.

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Come a Ottavia tutto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case, attaccapanni, terrazzi, così nei cinquantotto componimenti della silloge troviamo temi drammatici come la resistenza partigiana o la Shoah ai quali si intrecciano vicende personali. L’autrice parte dall’io più intimo, dalla solitudine, dal senso di vuoto, dall’amarezza del rimpianto, dall’inquietudine per estendersi con empatia ai dolori del mondo: la violenza contro le donne, le spose bambine, i bimbi soldato dei conflitti africani.

Quando parliamo di poesia, pensiamo alla lirica, cioè versi che esprimono in modo soggettivo i sentimenti e gli affetti del poeta. Eppure ci sono momenti nella storia talmente importanti da diventare fondamentali anche nell’esperienza individuale, eventi che accomunano le emozioni soggettive creando sentimenti collettivi. Accade alla poesia di Claudia Piccinno che si trasforma in specchio del mondo, del nostro contesto storico, in poesia civile che si ispira a temi che riguardano ognuno di noi.  In passato il suo compito era quello di educare, tramandando gli eventi che hanno caratterizzato la storia di un popolo. Qui l’intento celebrativo è scomparso, svaniscono anche le retoriche. Rimane la voglia di denunciare le tragedie dell’umanità, sperando che la poesia riesca, se non a cambiare l’uomo, almeno a dargli consapevolezza.

Dovremmo, forse, parlare di poesia “politica”, nel senso di una lirica attenta alla polis, a ciò che accade nella città, nella vita sociale, economica e culturale del paese. Poesia non partitica e ideologica, che non ha padrini da accontentare o a cui piacere, svincolata da condizionamenti o sollecitazioni esterne, che nasce esclusivamente dalla libera volontà dell’autrice, da un moto interno, intimo e profondo. E se così non fosse, sarebbe ben povera cosa, sarebbe solo un manifesto, uno slogan, senza risonanze profonde, versi deboli, retorici e inutili.

Invece la poesia civile di Claudia Piccinno – che è anche una docente – parte da una pulsione viscerale, da un’esigenza non procrastinabile di dire, di denudare più che denunciare le offese, le ferite, i segni del dolore che portano negli occhi e nel corpo i più deboli, i più esposti, quelli che si possono facilmente colpire e schiacciare.

“Mi ha guidato la vita e il mio spirito d’osservazione. – racconta l’autrice, salentina di nascita trapiantata a Bologna, in un’intervista – Gli incontri con i matti, il clochard, la prostituta, l’alcolista, i migranti, gli ammalati in ospedale, in particolare i piccoli pazienti oncologici, gli stranieri, i cosiddetti diversi… hanno lasciato il segno.”

Questa spinta carica la scrittura poetica di Claudia di una verità umana universale che oltrepassa l’esperienza individuale e si allarga a una dimensione sociale, dotandola di una forza espansiva proprio perché sgorga dall’autenticità del vissuto del poeta capace di far vedere, di mostrare squarci emblematici delle tragedie che accadono quotidianamente intorno a noi ma sulle quali molti, troppi preferiscono evitare di volgere lo sguardo e il pensiero, per pigrizia, per menefreghismo, per una sorta di anestesia dell’indignazione, una progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di umanità. Questa poesia si fa, dunque, voce e testimone del nostro tempo disastrato, senza punti di riferimento, senza valori autentici, senza direzioni certe, insieme al desiderio di destare coscienze assopite, risvegliare dall’abulia la collera, il disgusto lo sdegno, il rifiuto di accettare, in un silenzio passivo e colpevole, la realtà contemporanea per quella che è.

Sono storie, le poesie di questa raccolta, fatte di ricordi, dolori e assenze in una scrittura in cui traspare la sofferenza, in cui il proprio dolore non è una rigida armatura nella quale rinchiudersi ma ponte per raggiungere il prossimo sofferente e per questo hanno il colore cremisi, quella tonalità di rosso luminosa e chiara che, contenendo alcune componenti di blu, tende lievemente al porpora. Il cremisi è il colore dei fiori del Gladiolus, ed è utilizzato nelle filettature dell’abito dei prelati d’onore, dei vescovi e degli arcivescovi, nelle bandiere, negli stemmi e nei gonfaloni, un colore sacro e carnale, il colore delle passioni.

Versi cremisi animati e sostenuti da un dolente e risentito senso di umanità, da una pietas che è comprensione del dolore degli altri, un abbracciare chi soffre l’ingiustizia, la violenza, la sopraffazione, che è poi la condizione fondamentale per edificare una società realmente civile.

Una poesia oggi necessaria, doverosa, per non essere complici, per non far parte del branco indifferente, una poesia che si oppone e prende posizione, non si chiama fuori, anzi, si espone e chiede un nuovo umanesimo, una nuova società, con parole nette e affilate, una voce salda, appassionata e commiserevole, dove balzano in primo piano le figure e le vite degli sconfitti, delle vittime. Ed ecco il verso asciutto, pulito, essenziale, agile, libero da schemi metrici, assoggettato solo alla parola che è sovrana e non manca di musicalità, parole dentro componimenti brevi e densi, drammatici eppure equilibrati, pacati, versi che corrono sui fili della ragnatela che rappresenta relazione, ma anche leggerezza, una qualità cara a Calvino.

Certo la poesia, anche quella di Claudia Piccinno, non può porre rimedio, cercare di intervenire sulla disumanizzazione in atto della vita civile, sulle tragedie causate da un sistema socio-economico sempre più impazzito, ottuso e crudele, sulla deriva inarrestabile dei valori etici, non è un suo compito, spetta alla politica. Però una poesia come quella di questa silloge può incidere sulla sensibilità collettiva, predisponendola al cambiamento, può ridestare coscienze dormienti e rimbecillite da anni di slogan, pregiudizi, ignoranza, dall’idiozia televisiva, dal vuoto massmediatico, dalle frasi fatte, dalle certezze a buon mercato, dalla paura dell’altro, dello straniero, dell’omosessuale, del tossicodipendente, del lavoratore che protesta, dell’anziano che muore lentamente in un ospizio, della prostituta, del giovane teppista.

La vera poesia deve suggerire con le sue immagini, con lli occhi neri/ delle spose bambine, o con la mano armata di una gazzella del deserto, con quel vuoto che sento/ è quel pieno che manca. Deve smuovere, dissodare un terreno arido e indurito dall’abitudine, dall’individualismo, dai facili cliché, dal “non mi riguarda” e dal “cosa ci posso fare?”. E qui deve fermarsi.

La poesia, ha scritto la poetessa spagnola Gloria Fuertes, non deve essere un’arma, deve essere un abbraccio, un’invenzione, uno scoprire negli altri quello che accade dentro. Una scoperta, un respiro, un’aggiunta, un brivido.

 

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