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Il “pianeta caldo”: la Cop23, tra cambiamenti climatici e politica mondiale

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
18 Luglio 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Nella città tedesca di Bonn, in questi giorni, sono iniziati i lavori della Cop23 – la ventitreesima Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change) – che finiranno il prossimo 17 novembre. Vi partecipano migliaia di esperti e osservatori provenienti da centonovantacinque Paesi del mondo.

La presidenza del vertice internazionale è stata affidata alle Isole Fiji, in rappresentanza, simbolica più che fisica, dei luoghi più sensibili del pianeta Terra, che in un futuro non lontano potrebbero sparire per sempre, a causa dell’innalzamento del livello dei mari.

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In effetti, si tratta di ribadire le linee teoriche e gli accordi già elaborati alla Cop21 di Parigi di due anni fa, per mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi, e di produrre una serie di atti e una road map, in accordo con le varie governance politiche mondiali, al fine di rendere operativa e di controllare la realizzazione dei programmi decisi durante la conferenza parigina.

Dagli interventi del premier delle Isole Fiji, Frank Bainimarama, e di Patricia Espinosa, responsabile delle Nazioni Unite sul Clima, fino alla relazione di Barbara Handricks, ministro tedesco dell’Ambiente, l’allarme è stato lanciato perché anche il 2017 si avvia a essere rubricato tra gli anni più caldi della storia climatologica del pianeta. Handricks, inoltre, ha informato la platea sullo stanziamento di cinquanta milioni di euro, in aggiunta a quelli precedenti, per le isole a rischio di sparizione.

La scorsa estate, con le temperature elevate in tante aree della Terra e con l’impressionante fenomeno degli uragani che si sono abbattuti soprattutto nelle zone del Centro America caraibico e del sud degli Stati Uniti, con effetti disastrosi per la perdita di vite umane e di beni materiali di tante comunità, la materializzazione del cambiamento climatico e dei suoi effetti sull’ambiente naturale e sociale è stata visibile come forse non era mai avvenuto prima nella storia della climatologia.

Dal 1988, d’altronde, migliaia di scienziati dell’IPCC – acronimo che indica la sigla dell’Intergovernmental Panel On Climate Change, l’Osservatorio Mondiale sul Clima, creato in quella data dalle Nazioni Unite – hanno studiato i cambiamenti climatici e, più volte e in diversi convegni internazionali, hanno dichiarato che vi è certezza scientifica che le attività dell’uomo siano responsabili in larga misura degli attuali sconvolgimenti globali.

Fenomeni estremi, quindi, come lo scioglimento dei ghiacci polari e i cambiamenti nell’alternanza delle stagioni, caratterizzate da inverni brevi ma più freddi e periodi estivi molto più estesi nel tempo e con temperature elevate, sono da tempo costantemente monitorati.

Da tanti anni, gli appelli della comunità scientifica, purtroppo, restano inascoltati oppure non trovano alcun riscontro pratico nelle politiche economico-sociali e ambientali attuate dai governi degli Stati nazionali, spesso più interessati al particolarismo delle logiche affaristiche dei complessi industriali e finanziari, nazionali e sovranazionali, che alla salute del pianeta e delle comunità umane.

Diversi Paesi del mondo stanno investendo nella ricerca per l’uso delle fonti di energia rinnovabili e nella programmazione di una maggiore efficienza energetica. Non è ancora abbastanza, comunque, per cambiare lo stile di vita occidentale, estremamente individualista, consumistico ed energivoro.

Alla Cop23 si è partiti anche dal recente Rapporto delle Agenzie Federali statunitensi che parlano – in evidente contrasto con le dichiarazioni e le conseguenti posizioni “negazioniste” dell’amministrazione diretta dal presidente Trump – di un pianeta sempre più afflitto dal surriscaldamento globale. È stata di nuovo ribadita la necessità di fare in fretta nell’attuare i provvedimenti per contenere il fenomeno dell’effetto serra, prodotto in larga parte dalle eccessive emissioni di CO2 dovute alle attività inquinanti della produzione industriale.

Molti osservatori esterni – tra scienziati, economisti e studiosi delle possibili ricadute sociali sulla vita degli abitanti di tante aree del mondo – sono pessimisti sul fatto che questi provvedimenti, che si spera diventino operativi entro il 2020, possano bastare a evitare la temuta crisi ecologica prevista per la metà del secolo. Alcuni pensano che questo evento potrebbe addirittura portare a squilibri di portata irreversibile sull’ambiente globale chiamato biosfera, con conseguenze imprevedibili e sconvolgenti per la vita umana sull’intero pianeta.

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