Dopo Barbie, Oppenheimer era forse la pellicola più attesa di questo 2023. Per la regia di Christopher Nolan, il film è arrivato a più di 912 milioni di dollari al botteghino, superando nientemeno che Bohemian Rhapsody e raggiungendo quindi un nuovo record. Il biopic del 2018 diretto da Bryan Singer, con protagonista Rami Malek nei panni di un incredibile Freddie Mercury, aveva incassato oltre 910 milioni di dollari. Adesso è costretto a retrocedere al secondo posto perché è Oppenheimer a detenere ufficialmente il titolo di biopic con il maggiore incasso nella storia del cinema. Un record senza pari.
I meriti sono tanti e ci sembra giusto citare anche il noto Barbienheimer, ovvero la tendenza che ha preso piede sui social di unire in meme ironici Barbie (ormai volato oltre il miliardo) e Oppenheimer, usciti all’estero in contemporanea, e che ha portato le persone ad andare a vederli entrambi nella stessa giornata. L’apprensione era forte ma, soprattutto la paura. Sì, perché Nolan, con i suoi film, viaggia su una linea di amore/odio, tra filmoni senza se e senza ma e quelli che definisco una nolanata.
Esempio più eclatante, Tenet, che nel 2020 era stato un flop clamoroso, enormemente massacrato da pubblico e critica. Un’autentica nolanata, cioè la volontà del regista di gettarsi spesso in intrecci complicatissimi e perciò difficili da sciogliere, oltre che un’ostentazione della sua maestria, così smodata da risultare fastidiosa. Ed è un peccato perché Nolan, quando ci si mette e senza cadere in questo vortice di egocentrismo, è davvero un regista eccellente.
Oppenheimer rappresentava la speranza e il terrore in molti di noi e, una volta visionato, bisogna dire che si tratta sul serio di un ottimo film. Pesante, non vi è dubbio, ma ottimo. Ed è davvero curioso che una pellicola che è stata vietata ai minori (per le scene di violenza? Certo che no, per le scene di nudo, ovvio) in svariate parti del mondo abbia aperto il weekend con più di 170 milioni di incasso, il secondo miglior weekend di apertura per un film con limiti di età dopo La passione di Cristo di Mel Gibson. Un altro record non da poco.
Nolan si dedica dunque a un ennesimo film storico, scegliendo di caratterizzare la controversa figura di J. Robert Oppenheimer, fisico statunitense il quale, nel 1943, fu responsabile del Laboratorio di Los Alamos e direttore del Progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica. Un evento che cambiò non solo le sorti della guerra ma anche il corso della storia. “Il padre della bomba atomica”, come viene spesso definito, o ancora un “Prometeo americano”.
American Prometheus è infatti il titolo della biografia del 2005 scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin, a cui il film è ispirato. Come Prometeo rubò il fuoco agli dei per darlo al genere umano, venendo poi punito, lo stesso è avvenuto con Oppenheimer, artefice di un’arma di distruzione di massa senza precedenti. Egli stesso, mentre assisteva alla prima detonazione del test nucleare Trinity il 16 luglio 1945, disse una delle frasi più note a lui collegate: «Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi». La citazione rappresenta forse il verso più famoso della Bhagavadgītā, testo indù di settecento versi in sanscrito.
Il fulcro attorno al quale ruota l’intero film, al di là della costruzione storica, è uno: il dilemma etico. Nolan sceglie di raccontare la storia da un punto di vista morale, cosa ha comportato quella scoperta nella mente del fisico e del suo team di scienziati. Oppenheimer è un personaggio sfaccettato e pieno di contraddizioni, diviso tra due identità, quella dell’uomo e quella dello scienziato. Razionalmente è ben consapevole di ciò che sta facendo, della pericolosità di questo progetto, tuttavia è come impossibilitato a fermarsi poiché c’è in lui quella parte di scienziato che gli dice di proseguire, quella volontà di spingersi oltre, di superare i limiti. Nonostante il prezzo. La giustificazione ricorrente all’interno del film è quella di volerlo fare perché altrimenti lo farebbero prima i nazisti, cosa senz’altro vera ma che non elimina il dilemma.
Il volto del protagonista è quello di Cillian Murphy, attore dai lineamenti facciali inconfondibili e da tempo feticcio di Nolan (recitava anche in Inception e Dunkirk). Finalmente ha il suo momento di brillare e lo fa divinamente, donando al personaggio quell’espressività tipica di chi combatte con se stesso per una vita intera, di chi deve fare i conti con ciò che ha creato. Attorno a lui, un cast d’eccezione. Robert Downey Jr. è Lewis Strauss, politico di spicco nello sviluppo delle armi nucleari. Abbiamo poi Josh Hartnett come il Premio Nobel Ernest Lawrence, dall’incredibile somiglianza con Giovanni Muciaccia (i meme non mentono), e un ottimo Matt Damon come Leslie Groves, coordinatore militare del progetto. Il rapporto tra quest’ultimo e Oppenheimer è tra i più interessanti, soprattutto per il dualismo guerra-scienza che ne deriva.
Come nel lavoro, anche nell’aspetto privato del fisico vi è dualismo. Sono due le donne fondamentali nella vita di Robert: la moglie Katherine, interpretata da una grandiosa Emily Blunt, quella razionale, che sa tenergli testa, e Jean Tatlock (Florence Pugh), l’amante, quella che rappresenta l’istinto, il tormento. Nel cast anche Kenneth Branagh, Jason Clarke nei panni dell’odioso avvocato, Casey Affleck e Rami Malek. Nota di merito ad Albert Einstein (Tom Conti), i cui confronti con Oppenheimer, due menti brillanti in modi differenti, sono affascinanti e inquietanti al tempo stesso.
Nolan mette in piedi una regia raffinata, con inquadrature fisse e penetranti primi piani, accompagnati dall’eccezionale colonna sonora di Ludwig Göransson che non ci fa sentire troppo la mancanza di Hans Zimmer. Il racconto alterna un filtro a colori e uno in bianco e nero, sinonimo di ciò che è soggettivo di Oppenheimer e ciò che riguarda il processo al quale fu sottoposto nei primi anni Cinquanta, sotto accusa dalla Commissione per le attività antiamericane, ma prosciolto poco dopo. I dialoghi, senza girarci troppo intorno, sono tanti e volutamente artefatti, in perfetto stile Nolan, forse la cosa che potrebbe destabilizzare di più.
Resta la volontà di raccontare una storia nel modo più realistico possibile, con poca CGI (da sempre detestata dal regista) e un montaggio che rasenta la perfezione. La scena dell’esplosione è infatti quella più attesa e la più riuscita, costruita con tale maestria, tensione e angoscia che sembra quasi di essere lì con loro. «Sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, i più rimasero in silenzio» ricordò in seguito lo scienziato. Per non parlare della scena dell’intervista, empaticamente fortissima, forse il vero momento in cui Oppenheimer realizza le conseguenze delle loro azioni.
Oppenheimer è forse uno dei film migliori di quest’anno e senz’altro tra le migliori creazioni di Nolan, per tecnica e sceneggiatura. Non un mero esercizio stilistico ma una pellicola studiata, sentita, che merita le sue tre ore e che va vista rigorosamente in sala, possibilmente IMAX. Un’esperienza visiva, sonora, sensoriale incredibile e al tempo stesso un monito, una riflessione sul potere. Su quanto potere sia capace di creare e quanto sia capace di distruggere. Su quanto sia tutto così estremamente attuale, se si pensa che la paura di una possibile guerra nucleare la viviamo forte ancora oggi. Soprattutto in riferimento ai terrificanti dubbi degli scienziati nei loro discorsi più privati.