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More than a game: il basket NBA si ferma contro le violenze razziali in USA

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
28 Agosto 2020
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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More than a game. Si parlasse di qualunque altro sport, quello citato sarebbe da considerarsi nient’altro che uno slogan di successo, una trovata di marketing da stampare sul merchandising al fine di esaltare il prodotto, di esportarlo nel mondo sullo sfondo delle azioni spettacolari dei propri interpreti. Così non è per il basket, così non è per la NBA. La lega di pallacanestro americana è davvero more than a game, più di un gioco.

La NBA si è fermata, il basket ha detto basta. È un momento storico. È la notte di martedì scorso, a Orlando, Florida, nella bolla di Disneyworld, dove la stagione 2019/2020 sta provando a tagliare il traguardo sfidando il virus che ha messo in ginocchio l’intero pianeta. I Milwaukee Bucks hanno già effettuato il riscaldamento e sono pronti a scendere in campo contro i padroni di casa, i Magic di coach Steve Clifford, cercando il pass per le semifinali verso il trofeo Larry O’Brien. Pochi chilometri distanti da casa, però, a Kenosha, la polizia ha sparato sette colpi di pistola contro l’afroamericano Jacob Blake.

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Giannis Antetokounmpo e compagni non hanno dubbi: boicottano gara 5 e non scendono in campo. Il parquet resta vuoto, il cronometro scorre con gli arbitri fermi al tavolo, la sirena squarcia un’arena già troppo vuota per la mancanza di pubblico, ora deserta anche dei protagonisti. È la prima volta che una franchigia NBA diserta una gara ufficiale, è la prima volta che lo sport rinuncia a introiti di miliardi di dollari per dire con forza che la questione razziale non è soltanto una questione tra bianchi e neri, tra destra e sinistra, tra chi la pensa in un modo e chi, invece, neppure meriterebbe menzione: è questione di vite umane, e lo sport passa in secondo piano, lo sport deve passare in secondo piano.

Poche ore e anche Boston, i campioni NBA in carica dei Toronto Raptors, poi le compagini losangeline dei Clippers e i Lakers del numero uno al mondo, LeBron James. Il grido è unanime: Black lives matter, le nostre vite contano, contano quelle dei nostri figli, e tutto ciò va oltre anche quella che, di colpo, torna a essere solo una partita. Risuonano le parole di coach Doc Rivers che, appena la notte precedente, ha avuto ragione dei Mavericks con una gara da 154 punti dei suoi e alla stampa non ha avuto altro da dire che noi siamo quelli che vengono uccisi. Noi siamo quelli contro cui sparano. Noi siamo quelli a cui viene negato di vivere in certi posti. Noi siamo quelli che sono stati impiccati. Perché continuiamo ad amare questo Paese mentre lui non ci ama allo stesso modo? Io dovrei essere solo un allenatore, ma mi viene spesso fatto presente il colore della mia pelle. Dobbiamo fare meglio, dobbiamo chiedere di più. Mio padre era un poliziotto, io credo nei poliziotti buoni. Non stiamo provando a far togliere fondi ai poliziotti prendendo i loro soldi, stiamo provando a chiedergli di proteggerci. Esattamente come proteggono tutti. Siamo noi a dover aver paura! Siamo noi a dover parlare a ogni bambino nero. Quale padre bianco deve parlare a suo figlio per dire di stare attento se viene fermato dalla polizia? Vi chiediamo solamente di vivere secondo la Costituzione. Senza differenze, vale per tutti.

Il basket oltreoceano straccia l’idea che sport e politica non debbano influenzarsi, con gli atleti a godersi i loro ricchi stipendi, dimenticando – spesso – la strada percorsa fino al successo. Antetokounmpo, Rivers, James e tutti gli altri sfidano, ancora una volta, apertamente il Presidente Donald Trump e la sua propaganda del terrore, del razzismo come soluzione ai problemi di una terra da rendere nuovamente grandiosa, sfilano la canotta da gioco per indossare soltanto i panni dei personaggi dall’eco planetaria, una condizione che troppo spesso i giocatori rivendicano soltanto per i privilegi che questa comporta. Non loro, non la pallacanestro, non la NBA: more than a game.

NBA - James - racism

FUCK THIS MAN!!!! È il tweet che LeBron James scaglia contro la Casa Bianca e l’incredibile escalation di violenza che gli States sono tornati a vivere da quando il magnate newyorkese risiede a Washington. Pretendiamo il cambiamento, siamo disgustati da tutto questo. Da George Floyd fino a Jacob Blake, l’America a stelle e strisce si è trasformata in un teatro di guerriglia e rivendicazioni, un assurdo palcoscenico che vede contrapposti uomini e il governo che dovrebbe garantirne diritti e incolumità secondo la Costituzione. Invece, tutto ciò che rimbalza oltre l’Atlantico è un film che non ha mai smesso di trasmettere le proprie immagini di violenza razziale.

Se il gioco riprenderà oppure no poco importa (pare che giocatori e proprietari abbiano optato per il si, al fine di utilizzare i Playoff come amplificatore del loro messaggio). Neppure importa cosa cambierà, quali saranno le conseguenze che un simile gesto avrà sull’intera organizzazione, sui soldi, sugli sponsor, sulla corsa al titolo di campioni. Ciò che conta è dare il massimo risalto possibile a questa merda e – come ha ben sottolineato Chris Webber – ora hanno l’attenzione del mondo.

Con le elezioni presidenziali alle porte, con la pandemia di coronavirus che ha cancellato migliaia di vite, di cui soltanto 180mila in USA anche a causa del pressappochismo di Donald Trump, lo sport più iconico in assoluto per quanto riguarda storie di rinascita, di conquiste sociali, di rivendicazioni della razza nera sulla violenta supremazia bianca, non poteva restare indifferente e ha lanciato un messaggio a tutte le discipline dei cinque continenti. Giocare, correre, sudare, guadagnare milioni di dollari, essere eroi, non conta niente se anche un solo bambino nero deve guardarsi da chi ha il dovere di salvaguardarne la vita, se un solo uomo non gode del diritto alla stessa esistenza di un suo simile dalla pelle di un altro colore.

Forse nulla cambierà, forse neppure è lecito aspettarsi un simile gesto dal mondo del pallone – a noi più vicino – o più in generale dalle istituzioni europee, chissà per quale motivo emotivamente distanti dal dramma che si sta vivendo in America, come se la questione razziale fosse un problema di cui non si conoscono le barbare e inumane dinamiche. Forse. Dopotutto, null’altro è come la NBA, null’altro somiglia alla vita stessa quanto la pallacanestro, null’altro sa incidere sull’equilibrio della bilancia mondiale quanto le gesta di LeBron James e compagni, null’altro è more than game.

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