Luciano Melchionna è un drammaturgo, sceneggiatore, attore, regista teatrale e cinematografico italiano. Ha studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” lavorando, tra gli altri, con Luca Ronconi e Lorenzo Salveti. Scrive e dirige suoi testi teatrali come Non camminare scalza, Gas, Pausa, Dignità Autonome di Prostituzione, L’amore per le cose assenti, Spoglia-Toy, Fisica-mente, Non piango, Senza produrre nient’altro che amore, L’ala destra del dio di cuoio/omaggio a Pasolini e altri.
Mette in scena autori classici e contemporanei, nazionali e internazionali, come Alberto Moravia, Jon Fosse (Variazioni di morte in prima nazionale), Annie Proulx, Pier Paolo Pasolini, Alexandra La Capria, Shirley Jackson, Ingeborg Bachmann o John Osborne, per citarne soltanto alcuni.
Il suo spettacolo cult Dignità Autonome di Prostituzione – sedici anni di repliche – vince il Golden Graal – Premio Speciale per l’Idea e la Regia e riceve la nomination per la categoria Spettacolo d’innovazione al Premio ETI – Olimpici 2009. Nel 2012 viene selezionato da Louis Vuitton per un evento internazionale. A Castel Sant’Elmo di Napoli, nel luglio 2023, realizza il record di 24mila spettatori.
Attualmente, Melchionna è direttore artistico de Il paese incantato – Airolandia Teatro Festival, ruolo che ha ricoperto anche per l’Accademia d’Arte Drammatica del Teatro Bellini di Napoli. Alla I° edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma, è tra i dodici talenti europei coordinati da Gabriele Salvatores per il New Focus Europe e vince il Fondo SIAE per il Nuovo Cinema Italiano.
Gas, la sua opera prima cinematografica con Paolo Villaggio, va al Festival di Locarno 2005 nella sezione Cineasti del presente. Loretta Goggi, attrice non protagonista, è candidata ai Nastri d’Argento 2006. Ce n’è per tutti, tratta da un’opera teatrale di Luca De Bei, è invece interpretata da Ambra Angiolini, Stefania Sandrelli, Arnoldo Foà, Giorgio Colangeli, Jordi Molla, Lorenzo Balducci e Micaela Ramazzotti.
Con Anni: 30 (Giorgio Colangeli e Valerio Morigi) è in concorso ai David di Donatello. Scrive e dirige la pubblicità/progresso per Il Ministero dei Beni culturali Il teatro torna a casa con Franca Valeri.
Partiamo subito dal suo spettacolo di maggior successo. Dignità Autonome di Prostituzione appare come una lunga lettera d’amore in cui sono contenute tante sfaccettature dell’amore stesso, tutte ammesse. Se dovesse dare una definizione unica di questo sentimento, quale sarebbe?
«Se dovessi parlare d’amore, parlerei di un bambino. Un bambino che amava incondizionatamente esseri umani e animali. Un bambino convinto che nessuno avrebbe mai potuto ferire o anche solo spegnere i suoi e gli altrui entusiasmi. Se dovessi definire l’amore, userei la parola madre, quella bambina che non smetterà mai di amare il proprio figlio e che non farebbe altro che amare i figli di tutto il mondo e il mondo stesso se si lasciasse amare. Se dovessi urlare l’amore, userei la parola mancanza perché c’è bisogno di riempirle quelle voragini continue, c’è bisogno di riaccenderlo, eccome, il motore del mondo (come cita il titolo di un mio monologo nel secondo dignitoso volume: Mi sfugge di volare edito da Chipiuneartedizioni). Quando, dunque, voglio celebrare l’amore, mi immergo tra la gente, respiro la loro sopravvivenza e provo a trasformarla in speranza, do voce e dignità a chi non ne ha abbastanza, festeggio la vita insomma, nel bene e nel male».
Nel suo lavoro emerge la tenace volontà di fare ed essere squadra con i suoi attori e collaboratori tutti. Cosa significa per lei essere e fare squadra?
«Tenace, hai detto bene, ci vuole tenacia per creare una squadra con un’unica finalità: emozionarsi ed emozionare il nostro emozionante pubblico. Per me giocare con le emozioni è una conditio sine qua non e ciò significa che mi devo innamorare di chi mi accompagna in questo viaggio meraviglioso che è il teatro. Io scelgo tutti, anche i miei collaboratori, in base alla loro umanità, prima ancora di valutarli professionalmente o artisticamente. E questo crea necessariamente una squadra animata dalla voglia di bellezza e gentilezza – c’è modo di essere gentili e delicati anche nel costringere l’attore a vomitare emozioni dal profondo, chi mi conosce davvero sa quanto amore e cura e dedizione metto nel mio metodo “maieutico”, anche quando necessita di uno strappo brutale, circoscritto ovviamente, mai gratuito.
Grazie per questa domanda, mi piace si intuisca questo mio anelito, sì, è fondamentale per me creare una famiglia e confrontarmi e gioire di questo angolo di paradiso, allargato poi ogni sera all’apertura delle porte. Certo, come in ogni famiglia, c’è sempre qualcuno che all’improvviso ha bisogno di buttare all’aria la figura paterna e distruggere la quiete dello scambio, per poter prendere il volo: all’inizio non capivo, oggi invece, pur non approvando spesso la modalità, comprendo eccome e auguro tanta felicità a ogni nuovo cammino, con il bene di sempre».
Nel suo teatro il corpo di ogni attore o attrice risulta essere scolpito in ogni parola, accento, sguardo o silenzio pronunci. Cos’è per lei il corpo e come aiuta a viverlo alla sua squadra così intensamente?
«Nel mio metodo, parto da un “azzeramento” che significa purificazione/abolizione di ogni orpello ridondante del pensiero o del corpo, appunto. Inutile condire, enfatizzare o sovrastrutturare ciò che non si è ancora contattato. La parola crea mondi (e qui cito la meravigliosa Silvia Acocella, professoressa di letteratura italiana presso l’Università Federico II di Napoli, che così mi definisce, lusingandomi profondamente: “creatore di mondi”) e connessioni tra la testa, il cuore e le viscere, e va ad accendere emozioni, evoca ricordi e stati d’animo in qualche modo collegati a quel dire, risuona dentro e fuori, naturalmente, come una sinfonia di suoni e gesti fluidi e pregni di senso, dai quali partire per trascrivere la partitura più aderente a quell’urgenza».
Il teatro è un luogo o un non-luogo? Come riesce ad adattare i suoi spettacoli ai diversi luoghi scelti?
«Il teatro per me è una proiezione del mio mondo più segreto, fantastico, visionario. Amo scoprire luoghi o non-luoghi e annusarne le potenzialità, riuscire a far vivere ogni angolo, soffiare stupore in chi lo abita e in chi lo viene a visitare. Ogni luogo ha il suo sapore e se il teatro – come penso fermamente – nasce da uno o più contrasti, innestare in un luogo saporitissimo o completamente neutro ma riconoscibile, un altro o più ingredienti, crea per forza nuovi sapori, un nuovo gusto, e fa godere gli occhi e le papille gustative dell’anima».
Il teatro per lei è un modo di essere al mondo o un modo di stare al mondo?
«Imprescindibili per me le due possibilità: nasco così, per fare questo – al di là delle categorie del bene/male o giusto/sbagliato – e vivo, nel vero senso della parola, solo quando faccio questo.Mi “sento” e sublimo anche ciò che non vorrei “sentire”, a teatro. Respiro».
Come descriverebbe gli occhi di chi sa aspettare? Crede di riuscire a riconoscerli?
«Credo di averli indossati io stesso, per qualche attimo, qua e là, ma non credo di averli riconosciuti quando mi hanno guardato, in passato: gli occhi di chi sa aspettare, spaventano, a questo mondo. Si finge di non averli visti, spesso, e poi li si rimpiange. Un monito, questo mio, uno sprone per tutti noi».
Come immagina un mondo diverso in un mondo di “diversi” dove i normali si studieranno sui libri di scuola? Crede che arriveremo a viverlo?
«Credo che ci siamo ampiamente incamminati verso quel giorno che ritengo, però, sia davvero lontano ancora, per colpa di resistenze forzate, frustrate, incattivite, terrorizzate dai cambiamenti giusti e dagli svelamenti in nome della verità: è meglio raccontarci a modo nostro come dobbiamo essere e chi siamo, non conviene scoprirlo, specie se non ci si struttura, se non si lavora per aprire la mente, se non si rischia un po’, almeno ogni tanto, di ricevere uno schiaffo dalla propria coscienza. Quel mondo che descrivo resta un miraggio se non ci si immedesima di più negli altri, nella gioia e nella sofferenza degli altri: tanto – per citare il titolo del mio secondo film – ce n’è per tutti prima o poi. E quindi continuiamo a camminare, a passo sempre più veloce, senza permettere a nessuno di trattenerci o tirarci indietro: né per la strada a chi non ha nulla da perdere né a chi ci governa che, spesso, è il più pericoloso perché più potente e più spaventato di tutti».
Nel monologo La coscienza ovvero il carnefice associa la pazienza a un miracolo. Per lei lo è? Riesce a essere paziente negli aspetti legati all’instabilità del suo lavoro?
«La pazienza è e crea miracoli perché è collegata all’amore, alla passione, non si scappa. La pazienza di cui parlo io è quella attiva, però, quella che pur inchinandosi al destino altrui se ne prende cura, non abbandona, lancia semi e attende, dopo aver scavato e aver bagnato la terra con dedizione. L’amore è la cura, e l’amore non rinuncia mai a se stesso, non deve farlo mai, si dedica all’altro con slancio sincero, privo di sensi di colpa. E, in questo paese, direi che liberarsi dalla sensazione di essere sempre colpevoli di tutto è il vero miracolo e richiede la vera pazienza».
Nel monologo Tsunami parla di sinusitica inadeguatezza. Cos’è per lei l’inadeguatezza e come idealmente ci si può avvicinare a viverla e ad abitarla?
«L’inadeguatezza è un disagio perenne, una sensazione spiacevole, distraente, che ci scaraventa sempre indietro nella testa dolorante, anche quando ci spingiamo in avanti, fuori, pronti a vivere e a prenderci la responsabilità di qualsiasi fallimento. L’inadeguatezza è un’eredità che ti lasciano i genitori, la scuola, la società, è una battaglia da combattere, ogni giorno, per riuscire a vedersi e a immaginarsi vivere come si è davvero, al pari degli altri, consapevoli delle nostre origini, delle nostre conquiste, dei nostri meriti e dei nostri difetti su cui lavorare. L’inadeguatezza è una gabbia, dobbiamo trovare la chiave il più in fretta possibile, per scoprire la libertà e indossarne le ali».
Il coraggio è un’urgenza, non un’esibizione. Come vive nel suo lavoro il coraggio dell’oggi e del domani e il peso di ieri? Di che tipo di coraggio crede avrebbe bisogno il mondo con urgenza?
«Il coraggio di cui parlo spesso nei testi, e spesso tra le righe, nascosto, mai esibito appunto, è quello di osare… che non vuol dire fare sesso nella pubblica piazza o su un palcoscenico, non vuol dire dissacrare tutto e tutti, sputando merda ovunque intorno a noi, non vuol dire negare sempre, affermare la propria personalità con un “no” adolescenziale. Osare per me è sinonimo di vivere. Io so benissimo che quando mi rintano nelle mie “comfort zone”, quando non oso lanciarmi, cogliere l’attimo, non vivo. Osare per me è guardarsi negli occhi, per esempio, è dirsi parole semplici e rischiare di pronunciarle in modo sgrammaticato. Osare per me è arrossire per l’emozione di provare a sentirsi adeguati, appunto, ma senza mai adeguarsi».
*Le frasi inserite in corsivo nelle domande sono frammenti dei monologhi di Luciano Melchionna, contenuti nei libri Dignità e Mi sfugge di volare editi da Chipiuneartedizioni.
*Foto in copertina di Raffaella De Luise