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“L’uomo invisibile”: quando la fantascienza denuncia la violenza domestica

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
18 Maggio 2020
in Cinema
Tempo di lettura: 4 minuti
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Quando alla produzione di un film horror troviamo Jason Blum, stiamo pur certi che non si tratta del solito horror. Più un thriller con palesi tinte horror, questo L’uomo invisibile – regia e sceneggiatura di Leigh Whannell –, ennesima conferma che ultimamente la Blumhouse sta puntando con insistenza su pellicole che si distaccano dai canoni del genere verso una forte riflessione e denuncia sociale (ricordiamo lavori come Scappa – Get Out, Noi o il recente The Hunt).

Già sceneggiatore delle saghe di Saw e di Insidious, Leigh Whannell ha deciso di riportare sullo schermo il concetto dell’uomo invisibile, uno dei cardini del Monsterverse, ma di stravolgerne completamente l’idea. Tutto parte dal romanzo L’uomo invisibile di H. G. Wells, del 1897, che ha poi visto il suo omonimo adattamento cinematografico nel 1933, regia di James Whale. Nel 2000 è poi approdato in sala L’uomo senza ombra, diretto da Paul Verhoeven, con protagonista Kevin Bacon nei panni di un eccentrico scienziato alle prese con un siero capace di renderlo invisibile. Un tema, insomma, trito e ritrito, che vede il potere dell’invisibilità come qualcosa di estremamente ambito da sempre, per poter dar sfogo alle proprie fantasie più intime e recondite e diventare una sorta di divinità che tutto vede e sente nella vita degli ignari comuni mortali.

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Nel film di Whannell il punto di vista cambia e il protagonista non è più lo scienziato ma sua moglie, interpretata da una straordinaria Elisabeth Moss – June dell’acclamata serie TV The Handmaid’s Tale. Il suo nome è Cecilia e nelle primissime scene la vediamo fuggire, nel cuore della notte, dalla sua bellissima casa e dal marito, Adrian. Aiutata dalla sorella Emily e dall’amico James, Cecilia viene presto a conoscenza del suicidio di Adrian ma resta scettica e preoccupata; non avrebbe avuto motivo di uccidersi, lui, un ottico di fama mondiale, e la notizia le sembra più che altro un presagio per qualcosa di terribile. Non passa molto, per l’appunto, e fatti inspiegabili cominciano ad accadere, convincendola che Adrian in realtà sia diventato invisibile e la stia perseguitando per vendetta.

Se il film riesce a intrattenere con ottime scelte registiche e una giusta dose di azione e tensione, è inevitabile notare quale sia il reale punto focale su cui verte la riflessione: lo stalking e la violenza domestica. Cecilia è vittima di un uomo violento, possessivo e maniaco del controllo. Non vediamo alcuna scena di violenza coniugale – questa ci viene raccontata indirettamente da lei stessa – eppure comprendiamo a pieno la gravità della situazione. Riesce chiaramente a mettere su schermo le paure e le paranoie che le donne vittime di violenza hanno ed è per questo che empatizziamo con lei, quando si guarda intorno spaurita e si sente costantemente osservata, seguita da una repentina macchina da presa che ci rende i suoi occhi.

Oliver Jackson-Cohen, interprete di Adrian, non compare quasi mai, eppure il suo non-personaggio è preponderante, è asfissiante, persino nei momenti in cui lo spettatore sa bene che non è lì. È quel potere che i violenti riescono a ottenere sulle proprie vittime, anche dopo, quando è finita, la capacità di penetrare nella mente, di non farle mai sentire al sicuro e non renderle mai davvero libere da loro.

Cecilia non rappresenta lo stereotipo di donna bellissima e questa è la risposta al perché Adrian, ricco, bello e famoso, potendo avere tutte le donne che desidera, voglia proprio lei: è l’ossessione verso qualcuno che ha reagito e ha detto no. Emblematica la scena del sabotaggio del colloquio di lavoro di Cecilia, un chiaro riferimento a quei violenti, contrari al fatto che la propria compagna lavori, al fine non solo di renderla economicamente dipendente da loro ma di isolarla dalla società. E così si comporta Adrian, colpendo non la donna direttamente ma le cose che le fa e le persone che le stanno attorno. Non è annientare fisicamente la vittima ciò che vogliono, ma renderla sola e psicologicamente inerme. Forzarla a diventare madre, così da avere un ennesimo pretesto per tenerla attaccata a loro. L’assurdità della vicenda fa sì che Cecilia venga ritenuta pazza. E ancora si gioca con un ennesimo parallelismo, quello delle vittime lasciate sole dalla società, non credute né aiutate.

Il voyerismo dell’antagonista è perciò assolutamente diverso da quello delle precedenti pellicole, in cui l’invisibilità, ad esempio ne L’uomo senza ombra, viene usata per produrre scene un po’ erotiche con belle donne spiate e sfiorate. Nulla di tutto questo interessa a Whannell. Qui il fulcro della storia è e resta lei, che combatte da sola contro tutti. Ecco quindi che l’invisibilità assume tutto un altro senso e diventa metafora di un altro potere, di un altro controllo. Quello che fa parte della vita reale. Il tutto raccontato in modo scorrevole e non tirato, senza moralismi.

È passabile anche qualche piccola forzatura di sceneggiatura, per una storia tanto avvincente e ben strutturata, e una magistrale interpretazione della Moss e delle sue eloquenti espressioni facciali, sottolineate da inquadrature ravvicinatissime e una colonna sonora che ben accompagna il pathos.

Sta allo spettatore scoprire – non è quello il punto comunque – il motivo di quest’invisibilità guardando il film, disponibile on demand dal 27 marzo. Lasciandosi travolgere da una spirale di paranoia entrando non nella mente del carnefice ma in quella della vittima, provando a sentire sulla pelle cosa significa non avere più il controllo della propria vita e della propria persona.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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