Una città si specchia nelle espressioni di chi ci vive. In un certo senso, pur senza presentare il conto, o non facendolo platealmente, viene risarcita per quello che dà in termini di atmosfere, eredità e sangue. Una città è viva per questo, è viva così.
Tuttavia, nello spettacolo di Massimo Andrei, Favole del Mare, una tradizione dalla cifra così peculiare come quella partenopea, ha preso forma attorno a qualcosa di più antico e archetipico: la forza di una voce che scandisce il tempo e incatena gli ascoltatori nel gioco senza età della narrazione.
Nello spettacolo da lui scritto – diretto e interpretato in compagnia di Eduarda Iscaro, voce e fisarmonica della sirena, e Christian Moschettino, tenore un po’ pesce Nicola, un po’ semplice marinaio – Andrei ha infatti deciso di dedicare il movimento teatrale a una cornice conosciuta, come quella che vede sulla scena Pascale il cantastorie, impegnato a trasformarsi e a raccontare vicende più o meno note, l’amore di Partenope per Cimone, gli echi di un eroico Colapesce e le vicissitudini di Cozzeca Nera, interpretate dal suo sguardo di regista e attore.
È proprio la curiosità per le caratteristiche più invisibili di uno spettacolo come questo che rende quasi un obbligo parlarne con il creatore. Qui di seguito il resoconto di una chiacchierata di un incredibile sabato pomeriggio.
Non capita spesso di trovarsi di fronte a un esempio di teatro di narrazione come Favole del mare. Da spettatrice entusiasta, quindi, ancor più che da intervistatrice, vorrei che mi parlassi della motivazione dietro la scelta di mettere su uno spettacolo come questo.
«Mi occupo di fiabe e di cunti sin dai tempi della laurea. Ho cominciato gli studi di Antropologia per poi laurearmi in materie letterarie. Quello per l’Antropologia, però, intesa ovviamente a largo spettro, è un interesse che mi ha sempre accompagnato, quindi, quello del racconto orale è il mio campo. Lavorando come attore da compagnia classica e poi come autore per televisione e cinema, ogni tanto mi concedo spettacoli che riguardano il teatro di narrazione, la favola. Nello specifico, non sono nuovo a questa materia, soprattutto al cunto campano che con la fiaba vera e propria ha una leggera differenza lessicale: il cunto è qualcosa che non rinuncia alle proprie radici, siano esse territoriali o linguistiche. È legato ai posti in cui nasce. Il contesto storico e geografico è dichiarato, mentre la fiaba non ha tempi e non ha luoghi. Io, d’altronde, racconto in napoletano e già questa è una chiara affermazione di legame con le radici di cui parlo.»
Proprio riguardo all’utilizzo del dialetto, volevo porti una domanda che è figlia della minima esperienza che ho come narratrice. Seppur l’attingere – nel caso di narrazioni per l’infanzia come è capitato a me – a un patrimonio ricchissimo come quello del napoletano sia stato necessario per scardinare la timidezza iniziale di chi si trova in scena, non posso fare a meno di chiederti come uno spettacolo di narrazione reagisca all’esportazione in altri luoghi. Può sopravvivere fuori dai suoi confini?
«In realtà, molto banalmente, sopravvive nella misura in cui è portato in un contesto preparato a riceverlo. Un pezzo come l’Editto del cantastorie che adopero all’inizio dello spettacolo, “Noi che stamm’ facenn’… jamm’ cuntann’”, se viene adoperato dove non se lo aspettano, rischia di non essere compreso. Invece, in contesti precisi, è assolutamente recepito. Basti pensare ad autori con caratteristiche di lingua ben più forti come Enzo Moscato, che in questo momento è in scena con Scannasurice con un dialetto iperbolico e barocco, al Piccolo Eliseo di Roma, e sta avendo un successo importante. Significa che la lingua non è un deterrente.»
Dipende tutto dalla capacità narrativa, quindi. Il messaggio giunge lo stesso…
«In realtà, mi sono trovato a sdoganare questa faccenda della lingua quando ero più giovane. Ero in compagnia con Carlo Giuffrè, ci occupavamo di teatro di prosa, portando in scena anche Eduardo. I successi maggiori li avevamo a Udine, a Pordenone, a Trieste, a Milano, e non perché venissero a vederci gli emigrati dal Sud. La gente amava il teatro in dialetto, come ama anche oggi una commedia di Salemme che fa il tutto esaurito a Verona. La lingua non è mai un deterrente. La comunicazione, il teatro come sua espressione soprattutto, supera il fattore linguistico.»
Certo è che casi in cui la lingua conta di più ci sono. Devo proprio confessartelo, anche se la cosa non ti stupirà particolarmente: da un certo momento in poi, l’occhio e l’orecchio con cui ho assistito allo spettacolo erano quelli di una narratrice, per cui nascondevano il vorace interesse ad ascoltare per ripetere. Una fiaba come quella di Cozzeca Nera, imperniata su lunghissimi elenchi delle diverse specie di pesce, molto barocca e quindi simile a Basile, è già più difficile da ripetere, da far capire.
«Ho lavorato molto su Basile in passato. Oltre a occuparmene da regista, ho fatto delle registrazioni per la casa editrice L’isola dei Ragazzi, che a una edizione del Pentamerone di Giambattista Basile allegava un cd con le fiabe recitate e riadattate da me in un napoletano reinterpretato, un italiano “bastardo”. Mi capita di incontrare persone, nel mondo della fiaba, che mi dicono di conoscere Basile attraverso il cd di un autore napoletano, di averlo fatto girare per le scuole… Pensa che mi tocca rispondere “Quell’attore sono io!”. Sai, lavorando tanto su un autore, quando ti ritrovi a scrivere, un po’ l’hai introiettato.»
Effettivamente è facile immaginare che non se ne esca più, sono echi che rimangono dentro. E proprio riguardo alle fonti dello spettacolo e alle versioni a cui hai attinto nella fase di scrittura, cosa mi dici?
«Ci sono sempre degli spunti presi da qualche parte, ogni fiaba nasce da un input. Quella che parla di Cozzeca Nera è del tutto originale, anche se del legame con il colera parlò già Eduardo de Filippo che visse in piena maturità l’infezione a Napoli e in occasione dei primi anni ‘Settanta scrisse delle riflessioni sulla responsabilità della cozza, lo spunto principale è stato questo. La versione della fiaba di Colapesce, invece, è nata dalla diversa interpretazione che ne hanno dato da un lato Pitrè, che ne parla come un personaggio siciliano, dall’altro Benedetto Croce, che afferma – tra loro vi furono anche degli scambi epistolari – che è un personaggio dei racconti popolari napoletani. Un’estate iniziai a scrivere proprio riflettendo sulle diverse rivendicazioni di appartenenza, a chi lo voleva napoletano e a chi lo voleva siciliano, e arrivai alla conclusione che la cosa migliore fosse farlo diventare un suddito del Regno delle Due Sicilie, così nessuno avrebbe tolto qualcosa all’altro, il re sarebbe stato lo stesso. Poi, però, confrontandomi con dei cuntisti – ne parlavo con un amico siciliano che pure si è trovato a raccontare la stessa storia – ho scoperto che il re al tempo di Colapesce era Federico di Svevia, non il Grande Re di Napoli e Cicilia che racconto io, che potrebbe essere invece un Ferdinando IV di Borbone, piuttosto che Carlo III. L’epoca dovrebbe essere diversa, anche se lì poi intervengono la libertà e il desiderio di narrare una mia versione con dentro il canto, i cartelli e i disegni come facevano i cantastorie di una volta. Della storia di Partenope, invece, parlano in tanti: Matilde Serao, Della Porta, la letteratura sulle sirene è vastissima, così come le occasioni di spunto e ispirazione.»
Per quanto riguarda la scelta delle musiche, invece, come ti regoli?
«Le musiche sono una parte fondamentale, e in questo caso hanno a che fare tutte con la seduzione o con il mare. Le canzoni cantate sono canzoni marinare tanto della tradizione classica quanto della tradizione popolare. Sono necessariamente piegate al contesto: Eduarda Iscaro, che gioca come sirena, canta cose che hanno a che fare con la seduzione, ma che comunque riportano al mare. In ogni caso, lo spettacolo riprenderà in estate. Porteremo Favole del Mare in tournée e avrà dei giri suoi nel Sud Italia. Sicuramente saremo a Ravello, ad Acciaroli, a Salerno e a Nola tra giugno e agosto.»
A proposito della cornice in cui mi è capitato di assistervi, se è vero che una dimensione come quella creatasi nell’occasione mi è sembrata particolarissima – perché a questo tipo di teatro di narrazione non ero abituata – è anche vero che il Sancarluccio sembrava fosse tagliato su misura del tuo spettacolo. Si è creata un’atmosfera familiare, intima… Un po’ di casa.
«Era nei miei progetti. Il mio intento era quello di far rappacificare lo spettatore con il racconto. C’è ancora la possibilità di sentire un uomo che parla ad altri uomini raccontando storie di fantasia per un’ora e mezza, senza avere lo stress dei social network o del telefonino. C’è ancora la possibilità di essere coinvolti in una dimensione di narrazione. Forse avrebbero dovuto esserci mezzi economici maggiori per poter rendere quella stessa narrazione più corposa, più fantastica. La sirena avrebbe potuto fare la sua comparsa, il mare essere meno simbolico e più scenografico, però l’intento era un altro. Per me questo tipo di teatro è l’intrattenimento primordiale. Non è difficile immaginare una situazione che si svolgesse in un cortile, intorno a un fuoco, magari con gente come quella di non molto tempo fa, che non aveva altri mezzi che sentire storie per trascorrere il tempo.»
Penso che a essere recepito sia stato proprio questo: il piacere assoluto di sentire la storia così come l’avevi pensata, così come avevi deciso di trasmetterla. È stata un’immersione assoluta.
«Questa è la fiaba. Può ancora succedere che ci concediamo questo tempo. Magari non sempre, magari non tutti: ci sono persone che non riescono a concentrarsi per un’ora, un’ora e mezza, provano quasi ansia a sentirsi staccate dal mondo e devono accendere il touchscreen. Anche al cinema può capitare che al termine, invece di concentrarsi e assimilare la storia che si è vista o il mondo che è stato portato lì, a disposizione, si esca e la prima cosa che si faccia è accendere il telefono.»
Certo le derive negative potrebbero essere tante, potremmo parlarne per anni.
«No, non sono negative. Sono reali. Verrà il giorno, anche tra cinque minuti (ovviamente metaforici), in cui al cinema non si dovrà neanche spegnere il telefonino, lo schermo non darà fastidio, la suoneria non darà fastidio, riconoscerà da solo la sala buia, non disturberà ma comunque esisterà e quindi lo spettatore contemporaneamente vedrà i film e scriverà, messaggerà.»
Però, che angoscia!
«Sì, in effetti è quello che succede anche a casa, quando chi vede un film, magari pulisce una pentola o continua a chattare, e il film? Il film è andato avanti. Oramai siamo abituati, ma non dirò “purtroppo”, perché adesso è così, è la realtà che va avanti, non siamo retrogradi né nostalgici. È un po’ come quando durante una visita a un amico non perdo di vista lo schermo, il telefono. Faccio comunque le cose che devo fare, magari millecinquecento, anche in una semplice mezz’ora. Ma alla fine cosa avrò? Mi rimarrà un poco della visita, un poco del messaggio, ‘nu poco ‘e tutte cose, è questa la sostanza di oggi. Praticamente la superficialità.»
E allora non possiamo che essere contenti di un’occasione come quella che i cuntisti come te ci danno: ricordarci che un po’ di tempo riusciamo ancora a concedercelo e, quindi, ringraziarti, per questo e per tutto il resto. Sei stato meraviglioso.
«Se, vabbè… Non esageriamo. Ci rivediamo presto.»
Nota di cronista: direi presto e ancora prima. Massimo Andrei sarà a giugno al Napoli Teatro Festival con Raccogliere e Bruciare, uno spettacolo liberamente ispirato alla Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, diretto da Enzo Moscato. E chissà cos’altro avrà in serbo per chi ha tempo…
*foto di Fiorella Passante©