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“Lamb”, il disturbante non-horror di Valdimar Jóhannsson

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
11 Aprile 2022
in Cinema
Tempo di lettura: 5 minuti
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Se c’è una cosa che non ci saremmo mai aspettati è che un film come Lamb arrivasse nelle sale italiane. Invece, dal 31 marzo 2022, la Wanted Cinema ha deciso di regalarci tale stranissima emozione, distribuendo questo drama-horror di co-produzione islandese, svedese e polacca, che ha ricevuto il Premio Un Certain Regard per l’originalità alla 74a edizione del Festival di Cannes. Dietro la macchina da presa troviamo il nord-islandese Valdimar Jóhannsson, al suo debutto alla regia. Un debutto che non poteva essere più coraggioso e perturbante, perché Lamb (titolo originale Dýrið) è quanto di più assurdo possiate trovare in sala al momento, già ampiamente dibattuto a causa delle soluzioni estreme e non usuali adottate dal regista.

Siamo in un’isolata fattoria nelle lande islandese. Qui facciamo la conoscenza di María e Ingvar, una tranquilla – fin troppo – coppia senza figli, dedita al lavoro nei campi e all’allevamento del bestiame. La loro silenziosa quotidianità è sconvolta, però, quando una delle pecore del gregge partorisce una creatura ibrida, con un braccio e la testa di agnello e il resto del corpo di umano.

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Classe 1978, dopo aver diretto una serie di cortometraggi ampiamente premiati, Valdimar Jóhannsson ha scelto di concentrarsi sul suo primo lungometraggio, coadiuvato, nella scrittura della sceneggiatura, da Sjón (nome d’arte di Sigurjón Birgir Sigurðsson). Quest’ultimo, noto scrittore e poeta islandese, ha recentemente collaborato con Robert Eggers per il film The Northman che sarà distribuito in sala dal 21 aprile di quest’anno. Jóhannsson non si risparmia affatto e porta sullo schermo un ibrido – per restare in tema – tra horror sovrannaturale e cupo racconto popolare, ispirato al folklore del suo Paese. I lunghi silenzi e le bucoliche ambientazioni nordiche fanno da protagonisti, in una dimensione quasi sospesa dello spazio-tempo, che richiama vagamente le atmosfere ricche di suggestione delle opere di Robert Eggers (ricordiamo ad esempio in The Witch) o le alienanti trame di quel folle di Yorgos Lanthimos (ad esempio in Dogtooth o The Lobster).

Più che esserlo, Lamb si traveste da horror. Si tratta, in realtà, di un dramma dalle tinte un po’ dark e un po’ fantasy, e non utilizza espedienti quali scene eccessivamente sanguinose o la facile “paura” del jumpscare; piuttosto, gioca su un fattore ben più potente: l’inquietudine. Si prende tutto il suo tempo per portare avanti una narrazione cruda, fredda, spietata. A volte anche tenera, ma è una tenerezza straniante che turba lo spettatore e gli ricorda costantemente che c’è qualcosa che non va in quello che sta vedendo. Quella felicità familiare è in realtà una felicità parziale, ingannevole, e lo sappiamo bene sia noi che i protagonisti, i quali, nonostante tale consapevolezza, è quasi come se volessero godersi quei momenti finché possibile.

Tra le varie virtù del film vi è senza dubbio la brillante performance dei due attori principali. María è interpretata da Noomi Rapace, attrice svedese che ha già vestito gli iconici panni di Lisbeth Salander negli adattamenti cinematografici di Stieg La trilogia del millennio di Larsson: La ragazza con il tatuaggio del drago, La ragazza che giocava con il fuoco e La ragazza che ha preso a calci il vespaio. Anche protagonista dell’ultima produzione Netflix Granchio nero. In questo film, è impossibile non restare rapiti dai suoi occhi eloquenti e malinconici, il viso pulito e un’imponente presenza scenica. Al suo fianco, l’attore e doppiatore islandese Hilmir Snær Guðnason nel ruolo di Ingvar, compagno devoto e gran lavoratore. Nel cast vi è, poi, Björn Hlynur Haraldsson che abbiamo già visto, tra le varie performance, come Re Eist Tuirseach nella prima stagione della serie Netflix The Witcher. Qui interpreta Pétur, scapestrato fratello di Ingvar che si ritrova, per un certo periodo di tempo, a essere ospitato dalla coppia.

Uno dei temi cardine del film è senz’altro quello del diverso. Nella letteratura e cinematografia in generale l’elemento del diverso, in questo caso inteso come mostruoso, viene quasi sempre percepito dalla società con stupore, paura e spesso violenza. L’essere umano teme ciò che non comprende e lo respinge o, in certe occasioni, si prende gioco di lui nell’ideologia della propria superiorità sul diverso. Come dimenticare, del resto, The Elephant Man, cult del 1980 diretto da David Lynch, in cui il protagonista è nato con delle gravi malformazioni. O ancora Freaks, di Tod Browning, del 1932. In Lamb è tutto il contrario.

Per una serie di motivazioni che non vi diremo al fine di evitare spoiler, l’attrice stessa, in un’intervista, ha definito María come una donna che non sta vivendo, sta sopravvivendo. Il suo compagno o marito Ingvar la asseconda quasi passivamente, in una malinconica convivenza fatta di un continuo non detto. L’arrivo di Ada rappresenta per loro un dono, una possibilità, l’inizio di una nuova vita. Anche la scelta dell’animale in questione, un agnello, non è di certo un caso. L’agnello rappresenta per antonomasia, da un punto di vista prevalentemente religioso, il concetto di resurrezione, di rinascita.

Ma niente è superiore alla natura con i suoi limiti e il film ci ricorda che l’essere umano non è nulla nei confronti di questa e prima o poi si troverà sempre ad affrontare le conseguenze. L’essere umano potrà adattarla a sé, sfruttarla, sfidarla ma alla fine sarà sempre la natura ad avere l’ultima parola.

Un film divenuto già un cult negli Stati Uniti (entrato anche nella short list Miglior Film Internazionale agli Oscar 2022), con una fotografia, firmata Eli Arenson, caratterizzata da un’estetica fredda e suggestiva e un’angosciante colonna sonora di Þórarinn Guðnason. Lamb non si mostra, né ci tiene a esserlo, didascalico, retorico, bensì primeggia la dimensione onirica, allegorica, metaforica della storia. Non uscirete dalla sala con tutte le risposte alle vostre domande e tutti i dubbi fugati, semplicemente perché non è quello il punto. Il punto è un altro, è ciò che c’è attorno. È prendere coscienza della piccolezza dell’uomo nei confronti della natura.

Se il vostro intento è quello di procurarvi, con la visione di questo film, un po’ di intrattenimento o se non siete troppo fan delle pellicole con una forte componente simbolica, pensateci due volte. Forse Lamb non è quello che fa per voi. Se invece vi intrigano le storie familiari cupe e stranianti e avete amato le già citate opere di Eggers o Lanthimos, allora dategli una possibilità: potrebbe diventare davvero un film che ricorderete e su cui vi interrogherete per molto tempo.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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