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La disciplina sulle droghe e l’inefficacia del carcere

Giusy Santella di Giusy Santella
3 Luglio 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Il dibattito sulle droghe, la cui disciplina oscilla tra una sempre più forte repressione e tentativi di introdurre forme di legalizzazione di quelle leggere, ritorna ciclicamente e stavolta lo fa per due proposte di legge su cui la Commissione Giustizia si sta pronunciando negli ultimi giorni.

Entrambe finalizzate a modificare l’attuale Testo Unico sulle droghe (la vecchia Legge Jervolino-Vassalli), le proposte viaggiano in direzioni completamente opposte. La prima, presentata dal deputato leghista Riccardo Molinari il 9 ottobre scorso e la cui discussione è stata rimandata per l’emergenza sanitaria, intende inasprire le penein materia di produzione, traffico, detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope nei casi di lieve entità e prevede la modifica dell’articolo 73, comma 5, del Testo Unico, introducendo un aumento del minimo edittale da 6 mesi a 3 anni di reclusione, eliminando la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, al momento prevista per i tossicodipendenti o assuntori di stupefacenti condannati per un fatto di lieve entità e che possono ottenere la possibilità di svolgere un lavoro di pubblica utilità. Un’opportunità giustificata dal diverso percorso terapeutico che una persona con dipendenza dovrebbe poter compiere e che difficilmente avviene in carcere, ma che Molinari definisce trattamenti di favore da eliminare.

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La proposta chiede, inoltre, la modifica dell’articolo 380 del codice di procedura penale, in modo da introdurre l’arresto in flagranza di reato, al momento non previsto per i casi di lieve entità. Su quest’ultima modifica, ha avuto modo di pronunciarsi anche la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che l’ha definita necessaria, insieme alla custodia in carcere e a pene più severe per gli spacciatori al fine di non demotivare la polizia che il giorno dopo rischia di vederli nello stesso posto. Al di là dell’assurdità di concepire una qualsiasi modifica del sistema penale per soddisfare le forze dell’ordine – che dovrebbero impegnarsi ed essere motivate per ragioni ben diverse – la direzione di queste dichiarazioni e di Molinari è ben chiara e ha un intento estremamente punitivo e repressivo.

La seconda proposta è stata invece presentata da Riccardo Magi, esponente radicale eletto con +Europa, e ha per oggetto la depenalizzazione nell’ambito della coltivazione delle droghe leggere – su cui si è espressa favorevolmente anche la Cassazione a Sezioni Unite – e l’ampliamento dell’accesso alle misure alternative alla detenzione.

La presenza di tossicodipendenti in carcere è infatti tra le maggiori cause del sovraffollamento, una delle più grandi piaghe del nostro sistema penitenziario. Così come sottolineato anche da Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, essi rappresentano quasi un terzo dei detenuti, a fronte di una percentuale media europea del 18%. La nostra è quindi una legislazione già estremamente punitiva che con le soluzioni adottate non riesce ad affrontare in alcun modo il disagio che si collega troppo spesso alle condizioni di marginalità che i dipendenti vivono e che non necessita sicuramente di un ulteriore smottamento securitario.

Il carcere ha dimostrato a più riprese di essere inefficace e di produrre recidiva poiché non offre alcuna soluzione se non quella repressiva, come dimostrato non solo dal numero di dipendenti detenuti – in esponenziale aumento negli ultimi quattro anni – ma anche dal numero di reclusi per violazione della legge anti-droga, che rappresentano più del 30% del totale e che hanno raggiunto vette del 41% grazie alla Fini-Giovanardi – poi ritenuta incostituzionale per ragioni procedurali – che non ha apportato alcun beneficio in termini di riduzione di spaccio ma ha soltanto riempito le carceri, permettendo così che l’Italia fosse condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

La proposta di legge Molinari dimostra ancora una volta che si intende legiferare servendosi di giudizi morali del tutto personali che non tengono in nessun conto quelle che sono le reali esigenze del sistema penale e le effettive risposte che un fenomeno come quello della droga e quindi della criminalità organizzata richiedono. Inoltre, viola apertamente i principi di proporzionalità e di offensività, creando una pericolosa commistione tra il mercato delle droghe leggere e quello delle droghe pesanti che invece necessitano di una trattazione separata, non fosse altro che per un semplice ragionamento di politica criminale: colpire due fatti profondamente diversi in termini di entità, con pene simili o uguali, indurrà a compiere il reato più grave. In aggiunta, innalzando il minimo edittale e prevedendo l’arresto in flagranza obbligatorio, si produrrà un sovraccarico di lavoro per la magistratura che difficilmente potrà essere gestito.

È chiaro che il Testo Unico sugli stupefacenti necessiti di una radicale modifica che però allontani la disciplina dall’ideologia proibizionista e indirizzi il focus nei confronti di fenomeni criminali più rilevanti quale il narcotraffico di droghe pesanti, come sottolineato anche da Barbara La Russa, responsabile del settore accoglienza del gruppo Abele. Il Libro Bianco sulle droghe, arrivato alla sua undicesima edizione e presentato il 26 giugno scorso nell’ambito della campagna internazionale Support! Don’t punish, presenta i danni di trent’anni di applicazione della Legge Iervolino-Vassalli e ci fornisce dati molto rilevanti, spesso non reperibili a livello istituzionale.

Per il nostro Paese, i benefici derivanti dalla legalizzazione sarebbero evidenti in termini di lotta alla criminalità organizzata oltre che di tutela della salute dei dipendenti, così come ribadito da numerose voci autorevoli. Eppure, la repressione colpisce principalmente persone che usano o coltivano cannabis e che rappresentano circa l’80% del totale. In questo modo, non solo si utilizza un capro espiatorio contro cui accanirsi come emblema del disagio, ma si crea anche confusione nei confronti dell’opinione pubblica, convinta che le carceri siano affollate da narcotrafficanti e pezzi grossi del sistema mafioso.

Fino a quando non si privilegeranno interventi preventivi e rieducativi a discapito di scelte esclusivamente repressive, non sarà possibile alleggerire il nostro sistema penale e penitenziario dai maggiori problemi che lo affliggono e agire in maniera efficace e realistica, così come un fenomeno come quello appena affrontato richiederebbe. Bisogna necessariamente ripensare il Testo Unico sulle droghe in un’ottica umana e di tutela della salute, spogliando le misure legislative di qualsiasi intento punitivo e moralizzatore e ampliando l’accesso alle misure alternative alla detenzione, fonte reale di rieducazione.

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