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“La corrispondenza”, essere in dialogo con chi non c’è più

Rosa Maria Gloria Basanisi di Rosa Maria Gloria Basanisi
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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Sii sempre con me, assumi qualsiasi forma, fammi impazzire! Solo non lasciarmi in questo abisso dove non riesco a trovarti. – Cime tempestose, Emily Brontë

Non puoi lasciarmi in questo labirinto senza via d’uscita – La Corrispondenza, Giuseppe Tornatore

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Heathcliff perde Catherine, Amy perde Ed. Entrambi, però, non cessano di rivolgersi ai propri amati, pur di mantenere un contatto e non sentirsi perduti nel vuoto lacerante dell’assenza. Un filo rosso, sottile, lega questi due amori che si incontrano nella comunicazione di un bisogno, nella trasposizione letteraria e cinematografica di una necessità: quella di continuare a parlare con le persone che non ci sono più.

Il progetto del professor Edward Phoerum, malato terminale a causa di un grave astrocitoma, cerca disperatamente di trovare un rimedio e, contemporaneamente, un delicato balsamo alla sicura perdita di cui Amy sarà vittima. Egli intesse, infatti, una fitta tela di lettere, e-mail e video, al fine di restituire alla giovane l’illusione di poter continuare a relazionarsi con lui. Attraverso una meticolosa programmazione e il coinvolgimento di una lunga serie di complici, nei mesi successivi alla sua morte, accompagna ogni momento saliente della vita della sua amata. Che sia considerato uno straordinario atto d’amore o un titanico gesto di superbia, il piano di Ed sarà comunque costretto a sfidarsi con il tempo e, di conseguenza, con la vita e le sue imperfezioni, esprimendo in tal modo l’incredibile fragilità dell’uomo di fronte all’impotenza e all’infinità. Ma non è questo, forse, ciò che conta realmente. Il desiderio di Phoerum, per quanto possa rivelare una certa incapacità di scendere a patti con la fine dell’esistenza, ci mostra, difatti, il nobile sforzo di continuare a lasciare delle tracce per coloro i quali sono i depositari del nostro amore, per non consegnarli al doloroso scorrere di tempi silenziosi e di strazianti domande senza la possibilità di un appiglio. Per quanto fragile, per quanto caduco.

 Mio caro stregone, quando mi scrivevi le tue lettere e registravi i tuoi video, sapevi che in un modo o nell’altro le avrei lette, li avrei visti. Io, invece, so che non riceverai mai le mie risposte. Ma ci voglio comunque provare, serve a me. Finché ci sei stato, la galassia della mia vita stava in piedi, da qualche parte, ma adesso precipita nel vuoto, senza fermarsi mai. E se ho interrotto la tua corrispondenza non è perché non ho più bisogno di te. Anzi, il contrario. Infatti sono profondamente pentita.

Non è un mistero che l’uomo senta la necessità di relazionarsi al mondo di chi non vive più. Ne sono un esempio i sempiterni culti dei morti, i campisanti, i gesti quotidiani. Probabilmente, in essi non si nasconde semplicemente la nostra capacità di elaborazione dei misteri e delle ineluttabilità dell’esistenza, ma anche il tentativo di arginare la percezione di dover consegnare la vita degli uomini al vuoto. Una pietra, un terreno, una foto. Qualsiasi cosa può essere il supporto materiale del nostro dialogo, o monologo, con ciò che non potrà mai più tornare indietro. Tornatore lo sapeva e, per questo motivo, ha ben pensato di paragonare la nostra personale sfida contro la vacuità con la scia lasciata dalle stelle dopo la loro morte. Di per sé, gran parte di ciò che noi sappiamo di loro, proviene dallo studio e dall’analisi di ciò che la loro scomparsa ci ha rivelato. Nella perdita, si riscopre la misura del loro esistere. Nella morte, si celebra il valore della vita. Non appare così insensato, allora, il nostro bisogno di continuare a interrogare chi ci ha lasciato, anche se non è più in grado di ascoltarci. Probabilmente, proprio come per l’esplosione di una supernova, stiamo ancora ammirando il bagliore della loro scia, e non per rincorrere il miraggio di un ricordo, ma per conoscere più profondamente e con nuovi occhi.

In altre parole potremmo pertanto asserire che in astrofisica la conoscenza dell’universo sia avvenuta fondamentalmente attraverso lo studio delle stelle morte. […] In virtù del rapporto tra la finita velocità della luce e la distanza di miliardi di sistemi stellari rispetto alla Terra, possiamo continuare a vedere le stelle morte benché esse non esistano più. Anzi, è proprio la loro disastrosa fine a rivelarcele. Un’epifania che può durare secoli, mesi o una manciata di secondi. In ogni caso, è la rivelazione di una morte avvenuta decine di miliardi di anni fa. Lo scienziato, pertanto, non fa altro che dialogare con ciò che non esiste più.

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