I social. Uno spazio significante dove la gente può unirsi per uno scopo, per una battaglia comune, per diffondere consapevolezza, creare empatia e solidarietà. Uno spazio insidioso dove ci si può ritrovare alla gogna senza motivo e anche le idee più aberranti possono diventare virali. Avrete senz’altro sentito parlare, nell’ultimo periodo, della cosiddetta Boiler Summer Cup: si tratta della raccapricciante challenge che sta prendendo piede su TikTok e che consiste nel fingere di provarci nei locali con ragazze in sovrappeso al solo scopo di ridicolizzarle e umiliarle. Il tutto filmato con lo smartphone e spiattellato sui social senza il minimo consenso, corredato dell’apposito hashtag.
Questi campioni hanno anche sviluppato una sorta di listino dei punti da ottenere a seconda dei chili della vittima in questione. Punteggio massimo? Riuscire a portare a letto la ragazza. Potrebbe tranquillamente sembrare la trama di un episodio nella media di Black Mirror, con la differenza che ci auguriamo che i disastrosi e tragici epiloghi della serie non si riflettano anche nella realtà. Per questo è necessario parlarne.
Sono tante le ragazzine che hanno ammesso pubblicamente di avere ansia a uscire per timore di finire in qualche video o di essere bullizzate per il proprio peso, come se non bastassero l’ansia e la paura quotidiana di una qualsiasi donna che vuole andare a ballare, passare la serata fuori, indossare un abito carino, di essere molestata o, peggio, stuprata da qualche malintenzionato. Ragazzine in un periodo della vita enormemente complesso, le quali hanno già difficoltà ad accettare se stesse e il proprio corpo. Adesso anche questa. Una challenge.
Inutile dire che qui si oltrepassa la soglia del bullismo. Parliamo di discriminazione, di body shaming e misoginia. L’assoluta mancanza di empatia e indifferenza nel ferire i sentimenti altrui, esaltando il pregiudizio e l’oggettificazione del corpo femminile, il tutto per un po’ di popolarità in più sui social network. Il rischio di generare frustrazione, isolamento, disturbi alimentari è altissimo. Ma altrettanto è grave chi reputa tutto ciò uno scherzo, un gioco come tanti, una ragazzata.
È solo una goliardata tra maschi. Fattela una risata. Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Sì, perché la challenge in questione ha radici ben più remote e salde, annaffiate da generazioni e anni di cultura patriarcale, che vede il corpo femminile come un oggetto di cui disporre a proprio piacimento. Un corpo che non solo deve essere a disposizione sia fisicamente che verbalmente – facendosi pure una risata – ma che deve essere sempre, indiscutibilmente, perfetto. Conforme agli standard. Pena la marginalizzazione o la discriminazione sociale.
Da anni, i media continuano a propinarci immagini irrealistiche di corpi bellissimi, magri e tonici ed è scontato dire che l’effetto che hanno avuto sul modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri, di cosa voglia dire bello o in salute, è stato e continua a essere devastante, soprattutto in riferimento al mondo ovattato e filtrato dei social che ci rende del tutto assuefatti. La questione, poi, è anche più complicata poiché vede in prima linea sempre il corpo femminile.
Bisogna essere onesti: la percezione che diamo agli altri è importante per noi. Siamo esseri sociali e tra le nostre caratteristiche intrinseche vi è inevitabilmente la volontà, chi più chi meno, di piacere agli altri. Tutti, nessuno escluso. Ecco perché i commenti altrui possono avere un impatto distruttivo sulla nostra psiche. Senza contare che nessuno sa davvero di quali tasselli è composto un individuo e quella che per qualcuno è solo una battuta – e il più delle volte non lo è – per altri potrebbe essere un proiettile silenzioso e letale.
Il body shaming, secondo l’Associazione Nutrimente Onlus, colpisce una donna su due, di età compresa tra i 18 e i 55 anni. Parliamo di un fenomeno estremamente legato al mondo social, una forma di bullismo che giudica in modo negativo l’aspetto fisico di qualcuno fino a farlo vergognare di sé. Il più delle volte è questione di peso ma non sempre è così e basta una qualsiasi caratteristica fisica a innescare il meccanismo.
Tutti, tendenzialmente, siamo potenziali vittime di body shaming. Come tutti siamo stati inevitabili carnefici, nel pubblico o nel privato. Chi subisce questo tipo di insulti – talvolta mascherati da critiche costruttive per l’assurda ossessione odierna che sia fondamentale esprimere a tutti i costi la propria opinione o anche dire semplicemente qualcosa – finisce per sentirsi inadeguato, a disagio. Circa il 65% delle persone con disturbi alimentari afferma che il bullismo ha contribuito a definire tale condizione. Per non parlare del rischio di compiere gesti estremi da parte dei soggetti più fragili.
A contrastare il body shaming è subentrata, quindi, la body positive o positivity, che promuove un’immagine più libera e salutare del corpo umano, fregandosene dei preconcetti, dei canoni e delle pressioni imposti dalla società e valorizzando le proprie peculiarità. Migliorarsi, laddove si voglia, ma per se stessi e al fine di trovare la giusta armonia. Molte le aziende di moda che hanno iniziato a incentivare questa nuova immagine di corpo femminile, con campagne e spot sempre più inclusivi e destinati a un pubblico fatto di tanti corpi diversi. Attenzione, però, a non confondere questa visione con una tossicità che non ha nulla a che fare con la body positive. Ad esempio, pubblicità di abiti per taglie forti dove le modelle non sfiorano neppure la taglia 44 oppure la promozione e valorizzazione di uno stile di vita poco se non per nulla salutare come gli aberranti gruppi pro-ana. No, neanche questo è corretto.
Tuttavia, nascondersi dietro la retorica salutista è l’espediente più utilizzato da parte di utenti – strano che dietro la tastiera sia tutto più facile – che, se riescono a fuggire dall’insulto, comunque si proclamano paladini dello stile di vita ideale. Perché grasso è pigrizia, è mancanza di forza di volontà, è troppo cibo spazzatura, è poca attività fisica. Perché magro è salute, è felicità. È produttività. Un problema, quello della discriminazione verso i corpi grassi all’interno della nostra società, affrontato in maniera brillante nel saggio Fat Phobia (letteralmente, grassofobia), di Sabrina Strings, edito Mar dei Sargassi Edizioni.
Scrittrice e insegnante presso l’University of California, la Strings ha spesso affrontato i discorsi sull’ideale di bellezza e sulla salute in chiave sessista e razzista e questo ultimo scritto è un crogiolo del suo pensiero e dei suoi studi. Fat Phobia si arma di fonti e aneddoti storici, scientifici, filosofici, esplorando un percorso ben definito fino alla società odierna e individuando le radici della discriminazione del corpo grasso nelle teorie della razza. Un libro attuale e tagliente che ci fa prendere coscienza dell’incredibile portata sociale e culturale del fenomeno.
La Boiler Summer Cup è soltanto uno dei tanti risultati odierni di tale tossicità, che si fonde alla ricerca della spettacolarizzazione sui social e a una mancanza alla base di empatia. Nonostante sappiamo bene sia complicato, se non impossibile, rimuovere dal web contenuti diventati virali, sia TikTok che Twitter stanno facendo del loro meglio per controllare e bloccare questa tendenza.
Fortunatamente, l’internet è un mondo che sorprende e trova spesso il modo di riscattarsi. Mi viene da pensare al caso di Ingrid Escamilla, ragazza messicana uccisa dal suo compagno nel 2020 la cui foto del corpo martoriato è stata successivamente diffusa sui social. Ebbene, se è vero che ciò che va sul web resta in qualche modo in rete, almeno si può giocare d’astuzia per scoraggiarne la viralità. Così ha infatti agito la community, usando gli hashtag dell’orribile fotografia per pubblicare invece immagini di paesaggi rassicuranti o del bel viso della ragazza prima dell’omicidio. E così sta agendo anche oggi, ripostando, con gli hashtag della challenge, contenuti allo scopo di denunciare, combattere e sensibilizzare riguardo il body shaming e il body positive. Non sarà la soluzione finale, lo sappiamo, ma contribuirà a portare avanti un ideale di intelligenza emotiva, di rispetto reciproco in qualità di esseri umani, di accettazione di sé e dell’altro. E provare, magari, invece di denigrare chi incrociamo sul nostro cammino dall’alto del nostro piedistallo di plastica, a cercare e nutrire, invece, la parte migliore di noi.