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“Into the wild”: la libertà non è uno spazio libero

Eleonora Cepollaro di Eleonora Cepollaro
12 Febbraio 2020
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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C’è un piacere nei boschi senza sentieri,
c’è un’estasi sulla spiaggia desolata,
c’è vita laddove nessuno s’intromette,
accanto al mar profondo, e alla musica del suo sciabordare:
non è ch’io ami di meno l’uomo, ma la Natura di più.

È una vera e propria dichiarazione d’amore quella che Lord Byron riserva alla natura nonché un inno all’amore incondizionato, che dà e si dà interamente senza chiedere mai nulla in cambio. Quel tipo di amore che, rifiutando qualsiasi unità di misura, porta chi lo vive a sentirsi molto spesso inadeguato e fuori luogo.

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È la sensibilità dell’uomo romantico, il cosiddetto streben, ossia l’anelito all’infinito e all’immenso, lo sforzo incessante di chi quotidianamente rigetta la stagnante superficie immergendosi negli abissi più profondi nel tentativo di conferire valore e autenticità a un’altrimenti insignificante ed effimera esistenza. Pervaso dallo streben, l’eroe romantico prende congedo da una società sempre più affollata rifugiandosi nella natura ancora incontaminata, alla ricerca di spazi vuoti che possano in qualche modo sanare lo squilibrio con la sovrabbondanza di energia avvertita nelle regioni più intime dell’essere.

Penso di dover trovare un posto più grande perché quando hai più di quello che pensi, hai bisogno di più spazio. Società, sei una razza folle. Spero che tu non ti senta sola senza di me.

Christopher McCandless è l’eroe romantico che sfugge dalla società per cercare l’immenso, che si rifugia nell’isolamento per guarire quella dolorosa frattura tra l’idilliaco infinito della sua anima e l’atroce finitudine del suo corpo. Il giovane americano per la purezza dei suoi ideali ha fatto subito breccia nei cuori di molti, oltre che dello scrittore John Krakauer, che ha ricostruito la sua storia nel libro Nelle terre estreme, e del regista Sean Penn che, dopo aver lottato a lungo per ottenere i diritti cinematografici, l’ha portata sul grande schermo.

Christopher è un ragazzo benestante che, dopo aver conseguito la laurea, decide di dare via i suoi risparmi e mettersi in cammino allontanandosi da quella società consumista e capitalista in cui si sente sempre più estraneo. Sono la crescente inquietudine alimentata da oscuri disordini familiari, l’esigenza di verità e la sete di libertà che lo spingono a seguire la strada. Nel suo lungo viaggio, che abbraccia gran parte degli States, Christopher si spoglia di tutto ciò che non serve, perfino del suo nome. Infatti sarà sotto lo pseudomino di Alexander Supertramp che cercherà di ricostruire una nuova identità. Molte vite arricchiranno il suo bagaglio ma saranno solo intersezioni temporanee, brevi punti di tangenza che lo accompagneranno alla tappa finale: l’Alaska.

Cosa rappresenta l’Alaska per Christopher? Il raggiungimento dell’agognata verità, la realizzazione dell’ideale, l’apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore che suggella vittoriosamente la rivoluzione spirituale.

E cosa si rivela in realtà? Nient’altro che un punto di non ritorno, un viaggio di sola andata. Ma è solo quando si è spinto già oltre, quando ormai è troppo tardi, che il giovane scopre la beffarda verità: la felicità è reale solo se condivisa. Una verità costata una vita, il prezzo di base per i romantici.

La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione.

Così direbbe Giorgio Gaber. La libertà è partecipazione, non isolamento; un arcipelago di relazioni, non un’isola alla deriva; un fiume che sfocia nel mare, non un lago che ristagna.

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